Grafica di Enrico Cicchetti

una fogliata di libri

L'infinita guerra e pace tra Albert Camus e María Casarès

Edoardo Rialti

In “Saremo leggeri”(Bompiani) i quindici anni di lettere con María Casarès 

C’è una pausa, nell’orrore grigio e sfibrante della quarantena ne “La Peste”, in cui Rieux e Tarrou decidono di farsi un bagno notturno in mare. Questo “mormoreggiava piano sotto i grandi blocchi di pietra del molo e, mentre si arrampicavano, apparve loro, spesso come velluto, mobile e liscio come un animale. Si sedettero sugli scogli rivolti verso il largo. Quel respiro calmo faceva nascere e poi scomparire riflessi oleosi sulla superficie del mare. Davanti a loro la notte era senza limiti. Rieux, che sentiva sotto le dita il volto butterato degli scogli, era colmo di una strana felicità. Si girò verso Tarrou e indovinò sul viso calmo e serio dell’amico quella medesima felicità che non dimenticava nulla, neppure l’assassinio”. E’ una di quelle scene che condensano tutto uno sguardo, ciò che si cerca di additare ancora e ancora in tante variazioni, uno spazio segreto, un fiume carsico.

 

Per Camus immergersi nella bellissima terribile vastità del mondo, esporsi nuovamente alla fedeltà alla terra, come aveva insegnato Nietzsche, era la sorgente cui attingere per non piegare le ginocchia a qualunque speranza metafisica, rinunciando alle facili stampelle delle ideologie che fanno del mondo una scacchiera, e tenere gli occhi aperti per lottare, e scrivere. Può allora capitare, nelle acque scure in cui ci siamo ritrovati dal nostro primo vagito, di sorprendere qualcun altro accanto a noi, un’altra solitudine che fa compagnia alla nostra.

 

E’ lo stesso conforto espresso nei quindici anni di fitte lettere costanti con l’attrice María Casarès (“Saremo Leggeri”, Bompiani, traduzione di Camilla Diez e Yasmina Melaouah), il grande amore della seconda metà della vita, quando affermava che le proprie donne fossero quattro: la moglie, l’amante Bettina, prima supermodella del Dopoguerra, la figlia Catherine, e Maria, “l’Unica”. Due esuli, in modi diversi e sovrapposti, per nazionalità e rivolgimenti politici, che si sono amati, lasciati e ripresi con passione persino violenta – “Guerra e Pace”, scherzava Camus –. Lei aspira a “una vita da gabbiano in cui tutto pare lontano, brumoso, indistinto”, racconta le trasferte degli spettacoli e le fatiche delle prove, la pressione di una displica artistica che non lascia requie al fisico e alla mente: “Oggi, tornando da teatro, di colpo mi sono ricordata che avevo un corpo. Ovviamente il pensiero mi è venuto quando fantasticavo di avere te al mio fianco”.

 

Lui documenta le frustrazioni della scrittura, e lei come rimedio gli consiglia il mondo intero (“conto molto sul canto degli uccelli”). La distanza pesa e talvolta, forse, aiuta, fa spiccare più chiaramente ciò che si cerca anche nei momenti assieme. Si sognano, a premersi addosso, a lacerarsi, giocano a imporsi cambiali (“amarmi… prendermi tra le tue braccia… stringermi forte”). E’ il conforto di una tragica felicità – come notava in quegli stessi anni Camus nei taccuini – che permette di strapparsi alla “nostalgia dell’idillio universale” che il socialismo ha ereditato dal cristianesimo, per “accettare la propria originalità e la propria impotenza”. 

  
Lei si sente brutta e lui la rassicura che va bene così, “per sentire il proprio cuore occorrono il mistero, l’oscurità dell’essere, il richiamo incessante”. Nessuno si conosce, lotta e crea solo per sé stesso: “quel che ciascuno di noi fa nel suo lavoro, nella sua vita ecc. non lo fa da solo. Ha accanto a sé una presenza, che è l’unico ad avvertire”. Con cui guardare ma anche chiudere gli occhi, e riposare, senza dimenticare nulla.
 
 

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