Una giovane Azar Nafisi a Teheran nei primi anni Settanta. La scrittrice iraniana, nata nel 1955, oggi vive negli Stati Uniti

Fuoco di libertà

Edoardo Rialti
“Dobbiamo essere disposti a bruciare pur di fare la cosa giusta”. Come sopravvivere ai nuovi totalitarismi. Intervista ad Azar Nafisi

Il mio primo vero incontro con Azar Nafisi è stato in un libro non suo, un po’ come in quelle leggende medievali dove i trovatori restano colpiti da una donna mai vista. Era l’autobiografia di Christopher Hitchens che lodava “le donne dell’Afghanistan, dell’Iraq e dell’Iran che rischiano la vita e la loro bellezza per sfidare l’oscenità della teocrazia”, e prendeva a modello proprio lei, la quale aveva affermato che vivere nella Repubblica islamica dell’Iran era come essere costretti a fare sesso con una persona che disprezzi. E’ così che ho scoperto “Leggere Lolita a Teheran”, con la denuncia della nabokoviana Poshlust, la mediocre e invasiva volgarizzazione della vita di ogni regime totalitario, e del fatto che la letteratura si fosse rivelata una necessità per non avere prigionieri anche la mente e il cuore. Ma, come avevano già additato Milosz, Solgenitsin e Pasolini, l’occidente – e l’America in particolare – non è affatto esente dal suo proprio totalitarismo, che rimpicciolisce e avvilisce l’esistenza proprio perché, anzitutto, ghettizza e uniforma la cultura: “C’erano nuove sfide, e nuove ideologie difese in modo rigido e spietato, proprio come in Iran. La nuova ideologia che mi ritrovavo ad affrontare nasceva, come tutte, dalla semplificazione della realtà e dalla generalizzazione di alcuni concetti. Si basava su risposte arroganti, preconfezionate, e non stimolava granché a interrogarsi. Era nata da una messa in discussione seria e programmatica dell’autorità, ma ormai era diventata una formula facile, applicata tanto alla letteratura quanto alla realtà. Erano passati diciotto anni da quando avevo finito il dottorato negli Stati Uniti, e molti scrittori inglesi e americani che avevo inserito nei miei programmi in Iran non se l’erano passata bene in mia assenza. Anche qui erano stati processati, giudicati e ritenuti inadeguati”. E’ questo il cuore del suo nuovo libro, “La repubblica dell’immaginazione” (Adelphi), una sorta di “Leggere Huckleberry Finn in America”: “Ripensando alle parole di Ramin, una cosa mi aveva colpita: non intendeva dire che gli americani non capiscono i nostri libri, ma che non capiscono i loro. Indirettamente, suggeriva che la letteratura occidentale si rivolge più alle anime bramose della Repubblica islamica dell’Iran che agli abitanti della terra dov’è nata. ‘La gente di qui è diversa da noi’, aveva detto, con quel sorriso impenetrabile. ‘Non tiene ai libri’”. Questo perché “il nostro modo di vedere la letteratura è un riflesso dell’idea che abbiamo di noi in quanto nazione. Le opere dell’immaginazione sono i canarini nella miniera di carbone: l’unità di misura per valutare lo stato di salute della società”. Naturalmente “non siamo di fronte a un complotto ordito dai politici, dai miliardari e dalla camera di commercio, come alcuni critici hanno velatamente lasciato intendere, ma a qualcosa di molto più subdolo e difficile da affrontare: il prodotto di una mentalità pericolosa, di una visione che con le migliori intenzioni mira a dare un contributo positivo, come tutti noi”.

 

E’ di questa strada infernale lastricata di buone intenzioni che conversiamo nel giardino di un albergo romano, con una fontanella e le nostre voci che tengono coraggiosamente testa ai rumori dei lavori in corso. Il libro di Azar Nafisi si apre con Sherazade, a ricordarci “che i racconti ci aiutano a sopravvivere, ci rendono immortali”. Eppure il 2015 si è aperto con la strage dei fumettisti di Charlie Hebdo ed è stato costellato di statue mutilate e archeologi decapitati. L’ arte ci fa anche uccidere. “C’è una relazione così organica tra le storie e la vita che quando distruggi una distruggi l’altra”, risponde lei. “Nella sua essenza, qual è la relazione tra una statua antica di migliaia di anni e il nostro mondo oggi? La statua è il simbolo di tutto ciò che una mente dittatoriale odia, e la prima cosa che fanno i regimi totalitari è appunto distruggere il passato per legittimare il loro presente. Non riescono a tollerare ciò che è stato, non solo ciò che c’è, a da ciò traggono il loro potere. Mi domando spesso, cosa c’è in una statua che faccia infuriare questa gente così tanto? Deve contenere molto potere se vogliono distruggerla”. Quale è stato il primo libro nel quale ha respirato la libertà? “Il ‘Libro dei Re’ di Firdusi. Ero molto piccola e mio padre mi leggeva sempre delle storie. E’ stato scritto tantissimi secoli fa e racconta di questa donna che si innamora di un eroe cresciuto nelle terre selvagge perché era albino e lo consideravano strano. I due regni sono in grande contrasto, un po’ come in ‘Romeo e Giulietta’. La principessa del regno opposto si innamora di lui e le due famiglie si oppongono aspramente. A quell’età, per me, quella principessa fu un simbolo di libertà. Anzitutto perché sceglie un uomo che non era come gli altri, e poi era una donna di secoli fa che decideva chi sposare. In ogni grande storia c’è un personaggio capace di dire no, e solitamente è una donna”, aggiunge ridendo. Perché scegliere proprio Mark Twain, C. S. Lewis, il L. Frank Baum di “Oz” come padri fondatori della mentalità americana? “Huckelberry Finn, per me quello è il Padre Fondatore. Melville è grande, ma Twain comprese che non puoi competere con l’Europa sul suo stesso piano. Con centinaia di anni di grande letteratura. Non puoi avere un altro Dante, un altro Cervantes, ma può esserci qualcosa di completamente nuovo. Un mondo narrativo che non c’era mai stato prima”. Il libro di Twain è anche un grande abbraccio dell’altro, dell’estraneo, dello schiavo Jim. Non c’è forse tema più attuale. E’ sempre impressionante come possiamo commuoverci su una pagina per qualcosa che possiamo ignorare nella vita. Stiamo conversando a Roma, che attribuisce la sua fondazione a un profugo mediorentale, fuggito da una città in fiamme col padre sulle spalle e il figlioletto al fianco. Roma aveva intuito che può esserci un seme di vittoria in un re sconfitto. Noi abbiamo centinaia di migliaia di Enea davanti agli occhi, ma non li vediamo. “E’ bellissimo, ed è così legato all’America! Henry James in ‘Gli ambasciatori’ fa dire del protagonista che è ‘un fallimento perfettamente attrezzato’. E gli eroi americani sono questi fallimenti, anche nelle storie poliziesche di Raymond Chandler. Non si curano del successo mondano, eppure il sogno americano è basato sul successo mondano. Puntano su un altro tipo di successo, fare la cosa giusta. Il problema è che ai giovani d’oggi si insegna a pensare solo al successo. Donald Trump è un esempio di ciò che farebbe grande l’America. Invece volevo ricordare i piccoli, come Dorothy in ‘Oz’ o Huckelberry: sono loro i veri grandi, perché abbracciano il fallimento, ma non avevo certo pensato ai romani in questi termini”.Oggi si parla e si dibatte molto, e giustamente, di diritti. Non abbiamo forse dimenticato l’altra faccia della medaglia, la responsabilità? “Non c’è libertà senza responsabilità, ed è questo che stiamo dimenticando. Huck diventa un individuo morale nel suo rapporto personale con Jim. E’ spaventato dall’inferno se aiuta questo nero fuggiasco, e scrive una lettera per informare dello schiavo, ma poi pensa a Jim come a un essere umano e riflette: quest’uomo è stato il mio migliore amico, ed eccolo affermare che improvvisamente il suo cuore andò contro la sua coscienza. Va bene, non sarò mai un bravo ragazzo, andrò all’inferno! La responsabilità di rischiare tutto per fare la cosa giusta. Voi avete la statua di Giordano Bruno, qui a Roma. I ragazzi devono ricordare che dobbiamo essere disposti a bruciare pur di fare la cosa giusta. Tutti i grandi artisti, scienziati, pensatori hanno questa fiamma nel cuore che hanno più cara persino della vita. E’ la grande sfida del giorno d’oggi”. Quali sono, da parte degli studenti americani, le reazioni più commoventi e quelle più deprimenti? “Quello che uccide di certi studenti è la loro indifferenza. Talvolta non si arrabbiano neppure. A quella è molto difficile reagire. Ricordo invece una ragazza che piangeva in Kansas: sua madre non voleva che studiasse letteratura e non voleva neppure che venisse a sentirmi! E’ stato così strano per me doverle dirle qualcosa in contrasto con sua madre. Ma quelli che mi infastidiscono davvero sono quelli che ti ripetono quello che dici per prendersi un voto. Sono i peggiori. Gentili e educati, ma sai che ti sorridono solo perché vogliono che ti ricordi di loro all’esame”. In un certo senso, non c’è mai stata un’età più ‘letterata’. Sono tutti a leggere e scrivere – sul web, su WhatsApp, su Facebook”.

 

Ci sono più ricchezze, banalizzazioni o pericoli in questo salto quantico dell’informazione e della comunicazione? “Internet è così utile per fornire informazioni, ma questo non basta per pensare. Ed è questo che mi preoccupa, quando non facciamo pensare la gente. E poi c’è il problema della realtà virtuale. Un mio professore di filosofia prima di insegnare i concetti ci faceva passare di mano in mano un sasso. E’ quello che cerco di fare anche io. E’ come se volessi dire ai miei studenti: sentite il sole o il vento sulla faccia, e ditemi cosa vedete. Perché non vedono. Non usano i cinque sensi. E’ un problema serio. E richiede grandi docenti che aiutino a percepire quanto sia bella la realtà, con tutte le sue imperfezioni”. Oltre a insegnare il grande canone classico, non è il caso di estenderlo a nuovi capolavori della letteratura mondiale contemporanea? Non sarà il caso di far leggere anche Salman Rushdie o Les Murray, oltre che Jane Austen o Charles Dickens? “Certo, ci sono tantissimi grandi nomi di tutto il mondo: mia figlia che va a scuola in America si lamenta che i libri che deve leggere sulla letteratura messicana sono idiozie su ragazzini messicani. Insegniamo i grandi autori messicani o gli spagnoli come Cervantes, con anche tutte le loro crudezze. Insomma, il problema è che non insegniamo the real stuff. E a proposito del canone: dobbiamo stare attenti nell’inserire, ad esempio, molte scrittrici, ma non in una categoria a parte. Gli scrittori vogliono essere conosciuti solo in quanto tali. Certo, ognuno parte dal proprio ambiente, dalla propria condizione specifica. E ci sono scrittori afroamericani grandi quanto gli scrittori bianchi, ma chiamiamoli solo scrittori, e non scrittori afroamericani!”. Ayaan Hirsi Ali ha recentemente affermato che l’occidente dovrebbe sostenere i dissidenti dei paesi islamici, come faceva con gli artisti nei paesi dell’Unione sovietica. “Assolutamente. Chi ha cambiato l’est, se si eccettua Václav Havel, che è un’eccezione così straordinaria? L’occidente, e l’America hanno beneficiato del meglio dei rifugiati. Fin dalla Seconda guerra mondiale, basti pensare a Einstein, Arendt, Adorno, Mann” – lo dice alzando gli occhi a cielo, come a elencare una benedizione – “e poi Milosz e Brodskij. Anzitutto ciò costituiva una buona pubblicità per l’occidente, ma al tempo stesso era un buon segnale per i giovani scrittori o ricercatori che vivevano ancora nei paesi d’origine: sapevi che saresti il benvenuto. E onorare questi scrittori obbligava anche i dittatori a fare molta attenzione e non uccidere quelle grandi menti; se diventi così famoso, è molto più difficile toccarti. E’ il principio della libertà di espressione”. A Charlie Hebdo degli ex-sessantottini sono stati uccisi da ventenni-trentenni cresciuti a selfie e Facebook. Puoi avere tutti i giocattoli della democrazia, ma amarla non è scontato come potremmo immaginare. “Se non insegni certi valori e non vivi in base a essi, non arriveranno alle nuove generazioni. Pensiamo alle mogli dei presidenti degli Stati Uniti. Abbiamo avuto Eleanor Roosevelt, che contribuì alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Ora, abbiamo una donna certamente molto intelligente come Michelle Obama, e ne facciamo una celebrità, ma certo non la vedi andare a scrivere una Dichiarazione dei diritti dell’uomo. E anche noi scrittori veniamo trasformati in celebrità. Ero a Dublino per Amnesty a introdurre Malala che doveva ricevere un premio. E dei ragazzi mi dissero: ‘Oh! Incontrerai Malala! E’ così cool!’. E ho pensato: ecco cosa sta facendo di noi l’occidente. Questa ragazza è diventata famosa perché si è beccata un proiettile, e i ragazzi pensano: figo! Diamo premi Nobel per la cultura ma priviamo i ragazzi della capacità di pensare. Dovremmo dire loro: se vi piace Malala, allora leggete! Chiedo scusa, ma questa cosa mi fa infuriare”. Anche per Pasolini il consumismo è la vera vittoria del fascismo. Annuisce vivamente: “E’ così seducente. Quando ti torturano e ti dicono, non leggere questo libro, lo vuoi subito leggere. Ma quando ti seducono con modelli come Beyoncè e ti dicono ecco la nuova applicazione o videogioco, ti portano via la tua stessa mente”. Eppure ci sono sempre segnali positivi. Le persone amano le storie, le grandi narrazioni: basti pensare alle serie tv. Sono o non sono una nuova versione delle narrazioni a puntate, come in Dickens? “Hai ragione. Anche inconsciamente il pubblico cerca sempre la qualità. E’ l’élite che ha problemi con essa. I deputati, per esempio. Fanno raccolte fondi culturali e dicono: ‘Lo facciamo per la gente comune’. Per chi scrivevano Eschilo o Euripide? Chi c’era al Globe quando Shakespeare scriveva i suoi drammi? Loro. Le persone comuni! E io credo che il pubblico dovrebbe obbiettare. Voglio che i lettori siano attivi, perché, in quanto lettori, abbiamo una responsabilità”.

 

[**Video_box_2**]Christopher Hitchens diceva che l’arte ci aiuta a vivere il trascendente senza sottometterci al soprannaturale. Ma in questo momento vediamo una grande fame trasversale per le guide spirituali. Qual è lo spazio e la natura dell’arte, in questa ansia di risposte totali? “Hitchens ci manca tanto. Era così indipendente e fieramente polemico ma mai volgare, e i polemisti invece sono spesso volgari. Era un Nietszche per la destra o la sinistra, diventava sempre più se stesso. Ero a un dialogo con Salman Rushdie e ho affermato che l’unica cosa sacra in letteratura è il profano. Gli artisti è come se dicessero: non siamo qui per farti sentire a tuo agio, o darti consolazione spirituale. Siamo qui per farti vedere che appena fai un’affermazione, devi verificarla. Il sollievo spirituale è un’altra cosa. Ero a Venezia e guardavo questa splendida ‘Annunciazione’ del Tintoretto. Ricordava così tanto Zeus che prende con la forza Leda. Era così violento! Il viso di Maria non è felice. E la colomba pare una spada. E’ una celebrazione del concepimento, ma nell’immagine è come se Dio stesse violentando Maria! Naturalmente non so se ho ragione nel percepirlo così. Ma abbiamo bisogno di uno spazio in cui essere profani, in cui leggere il ‘Mein Kampf’, perché vogliamo capire il mondo, non perché vogliamo credere in Hitler. Ed è questo il problema del mondo accademico, non siamo più, appunto un’accademia. Siamo la sua caricatura. Penso sempre che in America non saranno i musulmani ad acciuffarmi o uccidermi, ma gli accademici sì!” E anche questo lo dice ridendo.