Il colloquio
"Andy Warhol capì subito che il pregio del pop è metterti a disagio". Intervista a Gus Van Sant
Il regista americano in scena al Teatro Argentina fino al 10 ottobre con "Trouble", spettacolo di teatro musicale sulla figura del grande artista. "Fu un pioniere dell'autopromozione"
Quello del ministro Franceschini - con il suo decreto che allenterà ulteriormente, da lunedì prossimo, le strette anti-Covid, riportando al 100%, in zona bianca, le capienze degli spazi culturali, cinema e teatri in primis - è un invito, parole sue, “a tornare a vivere la cultura in tranquillità e sicurezza”. Lo abbiamo provato in anticipo, l’altra sera, rimettendo piede a teatro per la prima volta dopo un anno e mezzo, vivendo quell’esperienza con lo stesso fascino delle prime volte. Controllo del Green Pass e dei biglietti, gel sulle mani, saluti nel foyer tra colpetti sulle spalle (come ci si saluta adesso? È la domanda che tutti ci poniamo) e confusioni (chi sarà quella signora con cappello e mascherina che ci ha detto ‘ciao’?), fino al palchetto fronte/palco, dove i posti per cinque sono ora per due.
Al Teatro Argentina dove tutto funziona perfettamente, la sala e i palchi sono sold out per “Trouble”, lo spettacolo in prima mondiale per il Romaeuropa Festival del regista Gus Van Sant. Una ouverture, un amore, che è “something that never ending”, un qualcosa che non finisce mai, per citare la prima miniserie da lui realizzata durante il lockdown per GucciFest con il direttore creativo Alessandro Michele, tra l’altro in prima fila ad applaudirlo. Questa volta, un regista come lui che nei film cult Will Hunting ed Elephant ha esplorato le inquietudini e l’adolescenza, ha deciso di avventurarsi nella sua prima creazione per il palcoscenico con uno spettacolo di teatro musicale ispirato da Andy Warhol e dalla sua travolgente capacità di trasformare le immagini in icone, raggiungendo lo status di celebrità in tutto il mondo come persona e artista. Come quel giovanissimo e longilineo ragazzino (che all’epoca si chiamava ancora Andy Warhola) originario di Pittsburgh, che andava in cerca di successo e soldi in una New York a suo modo accogliente, anche Van Sant arrivò in una grande città come Roma negli anni ’70 dove conobbe e frequentò la Wertmüller, Pasolini e la movida romana fino ad innamorandosene, tanto da girarci anche un film (Belli e dannati) e da tornarci molte altre volte. L’ultima, in queste settimane, prima del grande debutto del suo spettacolo, il primo in cartellone al Romaeuropa Festival, il più ricco di sempre grazie alla direzione artistica di Fabrizio Grifasi e alla presidenza di Guido Fabiani, senza dimenticare quella onoraria di Monique Veaute.
“Sono felice di questa riapertura necessaria dei teatri e dei cinema – spiega al Foglio a fine spettacolo il regista, emozionatissimo tra i saluti di amici e dei conoscenti – il teatro è vita: non va mai trascurata, ma solo celebrata”. Sul palco, per un’ora e quaranta, ha celebrato – ripercorrendola – quella di Andy Warhol, il giovane occhialuto che da Pittsburgh arrivò a New York in cerca di fortuna con i suoi disegni per convincere il gallerista Leo Castelli a prenderli o Truman Capote ad essere suo amico. All’inizio non ci riuscì, ma grazie alle sue capacità e alla fama, diventò l’uomo e l’artista più richiesto da chiunque, con vendite all’asta delle sue opere a milioni e milioni di dollari. “Dicevi e dici Andy, e pensi subito a lui – aggiunge Van Sant – che ha deciso di usare “Trouble” come titolo “per evidenziare il valore di un semplice gesto come dipingere un oggetto comune, un barattolo di minestra in grado di sconvolgere il mondo dell’arte per sempre”. “Così mi piace di più, mi sembra più stimolante”.
Il suo è un percorso immaginario tra fatti, sogni e ricordi abitato da personaggi che hanno segnato un’intera epoca come l’attrice Edie Sedgwick, scomparsa prematuramente, il già citato Capote o il critico d’arte Clement Greenberg. Ad interpretarli un cast di adolescenti e giovanissimi attori (Carolina Amaral, Diogo Fernandes, Francisco Monteiro, Helena Caldeira, João Gouveia, Lucas Dutra, Martim Martins, Miguel Amorim, Valdemar Brito) che, nell’assumere età e identità diverse, incarna e si confronta con un pezzo di storia apparentemente lontano ma ancora attuale. “È una mia prassi – aggiunge Van Sant – girare film anche con attrici e attori che non ne hanno mai girato uno. Anche in Mala Noche, Drugstore Cowboy e in My Own Private Idaho ho coinvolto attori professionisti e altri che non lo erano. L’idea di lavorare con attori poco conosciuti è qualcosa a cui sono abituato, ma i giovani protagonisti dello spettacolo hanno già alle spalle esperienze professionali nel mondo teatrale”.
“Mi ha sempre affascinato – continua - il breve lasso di tempo durante il quale Warhol passò da creativo pubblicitario ad artista plastico. È avvenuto tutto nel giro di quattro anni, sebbene lui avesse già fatto arte seria e negli anni seguenti fossero successe molte cose. Sono stato sempre attratto da quel periodo, anche perché significò una trasformazione dei galleristi di New York, una trasformazione degli atteggiamenti nei confronti dell’arte”. Fu infatti uno dei primi a credere nel potere della pubblicità visto che pubblicizzava sé stesso, concependo annunci che imprimevano il suo nome nella memoria della gente, facendo regali ai collezionisti e networking, “comprava quadri, andava a tutte le mostre, fu un pioniere dell’autopromozione”. “È stato il simbolo del pop – ricorda Van Sant, citandolo - che è stupido già di suo, bisogna solo peggiorarlo”; “il rappresentante assoluto di un arte che metteva molto a disagio, e per questo è la migliore”; “il portatore sano di un principio -“Tutti possono fare tutto" – che a ben vedere come sono andate poi le cose, in troppi hanno preso fin troppo sul serio. Questo lo aggiungiamo noi. Vederlo rappresentato così, ci fa venire una grande nostalgia. Abbiamo tutti bisogno della sua ironia e delle sue frasi metaforiche, ancora attuali e dense di significato. Una su tutte: “che fine hanno fatto i fori”?.
Intervista a Gabriele Lavia