I demoni di Adriano

Ritratto confidential dell'uomo Olivetti e del suo successo

Stefano Cingolani

Genio della tecnica, politico velleitario, ebreo in fuga. La biografia di Paolo Bricco racconta l’uomo che ha voluto rappresentare la via italiana alla modernità mescolando tecnica, cultura, politica, eleganza artistica e perizia meccanica 

Cominciamo dalla fine. “Nell’ultimo giorno di un imprenditore è come se tanti fili, all’improvviso, si riannodassero. Al mattino, prima del pranzo al Savini, Adriano è andato a far visita alla redazione delle Edizioni di Comunità… Dopo pranzo passa nella sede della Olivetti in via Clerici. Fa una serie di telefonate. Deve prendere il taxi. E’ agitato. Ha fretta. Doveva andare in Svizzera. Il treno su cui sale è il Milano-Losanna delle sei meno cinque della sera. L’ultima persona a sentire la sua voce è il sociologo Franco Ferrarotti, uno dei maggiori collaboratori nonché, alle dimissioni di Adriano da deputato, suo successore sullo scranno parlamentare”. Un viaggio in Svizzera, per incontrare i banchieri che seguono insieme a Mediobanca il collocamento azionario e che hanno sempre regolato le finanze personali degli Olivetti. Oppure “probabilmente sta andando a trovare Heidi, la bambinaia che cura Laura, la figlia di nove anni sua e della moglie Grazia. Con Heidi Adriano ha un’amicizia affettuosa. Da lei avrà un figlia, Lucia Adriana, che nascerà dopo la sua morte. Nell’ultimo giorno di un imprenditore è ormai sera. Il treno è in Svizzera. Adriano si alza dal suo sedile, non si sente bene, gli manca il respiro. Nel Canton Vaud il treno si ferma. Sono le dieci e quattordici di sera. Un’autolettiga lo trasporta all’ospedale di Aigle. Sul referto medico è riportata la causa della morte: ischemia cerebrale”. E’ il 27 febbraio 1960.
 

Perché ripercorrere a ritroso una vita tutto sommato breve, solo 59 anni, e intensissima? Forse perché come ha insegnato Lev Tolstoj nella morte si rispecchia l’intera vita? O perché è davvero difficile raccontare un mito con gli attrezzi della storia? Adriano Olivetti insieme a Enrico Mattei non sono vissuti abbastanza per tramontare. Mentre il padre-padrone dell’Eni è stato vivisezionato e non solo celebrato, l’uomo che ha voluto rappresentare la via italiana alla modernità mescolando tecnica, cultura, politica, eleganza artistica e perizia meccanica, non è mai stato passato al setaccio come ha fatto Paolo Bricco nella sua accurata e appassionante biografia (“Adriano Olivetti, un italiano del Novecento”, Rizzoli, 473 pagine, 22 euro) costruita con anni di lavoro sulle fonti di prima mano e negli archivi. Troppi veli si sono depositati su un personaggio che ha segnato per molti versi l’industria e la cultura, protagonista del miracolo economico e oscurato dalle ombre del modello italiano: il protezionismo, il provincialismo, la dipendenza dallo stato, dai governi e dalle banche, il familismo (la Olivetti era nelle mani di un patto di famiglia), la scarsità di capitali fino alla velleitaria proposta di passare la proprietà a una fondazione che acuirà i già aspri contrasti interni. Bricco ci racconta un borghese intellettuale che si è perduto nell’industria come il Tonio Kröger di Thomas Mann si era perduto nell’arte. La Lettera 22 riposa nelle teche del Moma eppure è anche l’emblema di un passato che non è riuscito a diventare futuro. 
 

L’intera vita di Adriano è un turbinio di demoni e fantasmi che ne assorbono tutte le energie: la tecnica, la politica, l’ebraismo, l’America, la comunità, il padre così diverso e così dominatore al quale si rivolge sempre nelle sue lettere con un “carissimo Babbo”. Camillo, militante socialista, amico personale di Filippo Turati e industriale, ebreo non osservante sposato con una valdese credente (ma in famiglia Dio non si nomina mai), innovatore schumpeteriano e nello stesso tempo conservatore, uomo tutto d’un pezzo che non si piega al fascismo, padre padrone con la barba biblica che fino alla morte nel 1943 avvolgerà come un tentacolo Adriano ben più degli altri figli Massimo, Dino, Laura, Elena e Silvia. Forte di una fiducia nel progresso tecnico e sociale insieme, è lui a trasformare in prodotto industriale (per la verità ancora artigianale) la macchina da scrivere inventata senza successo da Giuseppe Ravizza nel 1855, ispirandosi a quel che accadeva negli Stati Uniti con la Remington e Sholes and Glidden. Il sogno americano lo conquista, va negli States, visita la Underwood che tornerà come una nemesi nella storia della Olivetti e allora produceva già 70 mila macchine all’anno, mentre lui al massimo arriverà a tremila con la M1 che segnerà il vero decollo industriale.
 

“Adriano – scrive Bricco – è timido, goffo, silenzioso. Ama mangiare i dolci. Da piccolo non mostra una mente scintillante. Non è il bimbo di fronte a cui tutti rimangono senza parole”. Il suo ritratto giovanile esce da “Lessico famigliare”, il capolavoro di Natalia Ginzburg, sorella di Paola che sarà il grande amore contrastato, infelice, mai davvero interrotto nemmeno quando lei lo lascerà per Carlo Levi. Adriano entra nella famiglia Levi grazie a Gino che lavorerà poi in Olivetti e cambierà nome in Martinoli per sfuggire alle leggi razziali. Arriva la prima volta nel 1918 vestito da soldato, “aveva allora la barba, incolta e ricciuta, di un colore fulvo; lunghi capelli biondo-fulvi che s’arricciolavano sulla nuca, ed era grasso e pallido”. Non è un predestinato, il destino glielo ritaglia Camillo che da buon positivista al destino non credeva. 
 

L’America è l’altro grande fantasma. Nel suo primo viaggio di formazione tipico per gli imprenditori del tempo, Adriano si entusiasma per le meraviglie della tecnica, ma non capisce un paese che non conosce, del quale non ha letto gli scrittori, i poeti, i pensatori. Lui che, avviato dal padre a studi professionali, per tutta la vita cercherà di colmare le lacune in modo spesso bulimico, confuso, contraddittorio, assemblando troppi pezzi difficili da digerire e impossibili da combinare. Bricco parla di “ricomposizione versatile e affastellata, eterogenea e composita del pensiero errabondo di Adriano” il quale si circonda di poeti, scrittori, pensatori sociali, artisti, architetti, intellettuali di estrema destra così come di estrema sinistra, ai quali affida compiti operativi in azienda. Una corte post rinascimentale in una cittadina ai piedi delle Alpi che produrrà alcune icone del design industriale e veri messaggi-culto nella pubblicità da sempre fiore all’occhiello. Adriano non crede nel mercato, nella concorrenza, nei princìpi liberali, il suo comunitarismo che vuole andare oltre il comunismo e il capitalismo entra in contrasto con l’operato di un imprenditore che detesta come Henry Ford. Eppure è fordista fino al midollo: paga gli operai molto più della media, li premia, li protegge, costruisce per loro case e un sistema di welfare industriale, però li fa lavorare montando un pezzetto dopo l’altro come le scimmie delle quali scrisse Louis-Ferdinand Céline nel suo “Viaggio al termine della notte”. 

Di questo pout-pourri fa parte lo stesso rapporto con l’ebraismo dal quale ha voluto sfuggire (si farà anche battezzare) per una sorta di cristianesimo delle origini, anche se è rimasto sempre attratto dall’intellighenzia ebraica. L’ufficio pubblicità della Olivetti a Milano è uno dei rifugi per gli esuli del Bauhaus e da lì sono usciti alcuni prodotti tra i più eleganti del razionalismo nell’architettura (comprese le fabbriche di Ivrea e Pozzuoli) e nel design. Paola Levi che sposa nel 1924 con rito civile lo introduce alla letteratura e all’arte, sarà un Pigmalione al femminile; insofferente alle regole della famiglia borghese, preferisce subito Milano e poi la natia Firenze a Ivrea; sceglie la coppia aperta finché non s’innamora del pittore Carlo Levi. Finisce nel 1938 il matrimonio con Adriano dal quale sono nati due figli, Roberto e Lidia, ma anche Anna avuta da Carlo Levi avrà il cognome Olivetti. I rapporti con le donne sono anch’essi popolati da demoni e fantasmi. Adriano ha un lungo rapporto con Wanda Soavi, la sua segretaria, poi la lascia per la giovane Grazia Galletti che sposa nel 1950 confessando a Gino Martinoli che impalmare una vergine gli avrebbe restituito “il vigore della giovinezza”. Intanto ci sono incontri e passioni momentanee o fulminee come quella per la tabaccaia di Viareggio alla quale intesta un negozio (lo si saprà solo dopo la morte mettendo ordine nelle proprietà Olivetti). 
 

Il demone che lo consuma per tutta la vita è senza dubbio la politica. Socialista riformista come il padre (parteciperà anche alla fuga di Turati), se ne allontana via via per nutrire un mix di organicismo sociale che finisce per incontrarsi con il corporativismo. Per Bricco c’è un “consenso teorico al fascismo” che va oltre “l’assimilazione silenziosa alla quotidianità del regime”. Adriano è un conformista come i personaggi del primo romanzo di Alberto Pincherle poi Moravia, anche lui per sottrarsi alle leggi sulla razza, ma è anche molto di più. Nel fascismo vede il contenitore della industrializzazione e della modernità. Si spiega così il rapporto con Mussolini e il legame con il segretario particolare del duce, Osvaldo Sebastiani per il quale passano le donazioni. Solo con la sconfitta e la caduta del regime nel 1943 avverrà la frattura, anche se la Olivetti assumerà pure repubblichini di Salò.


La ricostruzione postbellica porta nuove contraddizioni. Adriano critica il piano Marshall: “In un primo tempo ha sottratto l’Italia al comunismo – così scrive su Comunità, la sua rivista –. In un secondo tempo la medicina data al nostro popolo sotto forma di assistenza economica, non essendo accompagnata da opportuni controveleni, ha dato occasione allo sviluppo di forze negative operando equivocamente a incrementare lo sviluppo del comunismo”. La responsabilità è “nell’incapacità della democrazia cristiana di concretare un programma moderno” accusa sulla rivista World criticando la propensione della Confindustria per l’assistenzialismo pubblico. Lo attacca piccato Angelo Costa il gran capo degli industriali privati: “Non posso riconoscere il diritto di giudicare l’intera categoria tanto meno a Lei che si è rivolto alla Confederazione per cercare di impedire che capitale straniero venisse a creare una nuova attività in Italia, cercando in tutti i modi di impedire che sorgesse a Napoli lo stabilimento della Remington Rand”. La Olivetti resta nella Confindustria, aumentando però un crescente senso di estraneità. Il paradosso è che verrà salvata da quel complesso bancario-industriale che Adriano adenna caustica Carlo Emilio Gadda descrive il “cenacolo Olivetti” composto da quegli intellettuali che vogliono “lo stipendio da dirigente e la coscienza inquieta”. Proprio come Adriano, se allo stipendio sostituiamo il dividendo. 
 

Di profitti la Olivetti ne ha generati davvero tanti nel decennio d’oro 1948-58. Bricco ha consultato i bilanci, gli utili sono stati distribuiti alla famiglia, mentre Adriano che pur avendo i pieni poteri possiede una quota inferiore, finanzia di tasca propria le attività culturali, l’editoria, il neonato Espresso di Arrigo Benedetti ed Eugenio Scalfari (venderà poi le sue azioni a Carlo Caracciolo, per evitare altri conflitti con il mondo politico). Dal 1948 al 1960 per le attività estranee all’azienda spende non meno di un miliardo di lire di tasca propria. E’ un uomo ricco, ma i suoi demoni a poco a poco lo impoveriranno, approfondendo i contrasti in famiglia soprattutto dopo la catastrofica discesa in campo con lo smacco del suo micropartito alle elezioni politiche del 1958. Adriano Olivetti prenderà un seggio a Montecitorio, uno solo, il suo. 

I conflitti domestici diventano acuti anche sulle strategie industriali. Il fratello minore Dino, che spingeva per passare dalla meccanica all’elettronica, si era spostato negli Stati Uniti dove seguiva gli sviluppi della neonata èra informatica. In azienda c’è Mario Tchou di origine cinese, vero mago della grande elettronica che nel 1957 mette a punto la “macchina zero”, l’Elaboratore elettronico aritmetico Elea 9001, due anni dopo nascerà l’Elea 9003 che utilizza i transistor, un vero computer in grado di confrontarsi con i concorrenti americani. Ma negli Usa il mercato è fiorente, irrorato dalla crescente domanda pubblica, militare e civile, in Italia no. Crede nel salto di qualità anche Roberto, il figlio maggiore di Adriano che scriverà al padre una lettera durissima. La morte di Tchou in un incidente stradale nel 1961 sarà fatale. Nel 1960 erano stati ordinati tre calcolatori Elea 6001, ma nessuno era stato consegnato, quanto al grande Elea 9003 gli ordini erano ben otto (sic!) uno solo dei quali consegnato. Col senno di poi si è scritto che tra le occasioni mancate dell’industria italiana c’è proprio l’elettronica e si dà la colpa a Mediobanca la quale per sanare i conti ha ceduto agli americani le competenze elettroniche della Olivetti. E’ vero che Enrico Cuccia non masticava granché di nuove tecnologie, ma prima di parlare bisogna dare un’occhiata a quei magri consuntivi. Adriano era rimasto anche lui un meccanico e l’Italia stava diventando già un paese per vecchi. 
 

L’ultimo fatale errore è l’acquisizione di Underwood. Tornato al timone della sua Olivetti, decide di comprare senza una vera analisi e in soli sei giorni l’azienda che era stata una bandiera, primo produttore di macchine da scrivere con il 70 per cento del mercato Usa prima della Seconda guerra mondiale il cui blasone ormai era del tutto offuscato. Diventata fabbrica di armi, aveva stentato a riconvertirsi. Nel 1957 aveva tentato senza fortuna la via dell’elettronica. Dunque, la Olivetti stava sommando due debolezze e per di più doveva impegnare grandi risorse finanziarie per risanare l’azienda: ben 60 miliardi di lire, oltre cento milioni di dollari spende dal 1960 al 1964 quando interviene Mediobanca per evitare il fallimento dell’impresa di Adriano destinata a diventare “l’impresa di nessuno”, per citare Bruno Visentini che ne assumerà la presidenza dal 1979 al 1983. Adriano Olivetti è stato “un grande imprenditore e un politico di insuccesso, un destino incompiuto”, scrive Bricco, è stato un esponente di rilievo di quella classe dirigente che, uscita dal fascismo e dalla sconfitta, ha trasformato l’Italia in uno dei maggiori paesi industriali. Una classe piena di limiti, talvolta confusa e velleitaria, eppure dotata di un progetto vasto e di sogni grandi come quelli di Adriano, sogni tradotti in realtà, anche se una realtà fatta della stessa materia dei sogni.

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