"Letture al mare", Vittorio Matteo Corcos, 1910 (Wikipedia)

le lettere

Il carteggio, commovente e un po' ridicolo, tra Pascoli ed Emma Corcos

Matteo Marchesini

Leggendo “Non c’è cosa più dolce”, in cui Francesca Sensini propone il carteggio tra la moglie del pittore e il poeta del "fanciullino", è difficile che alla commozione non si mescoli una certa ilarità. Tra lodi e critiche, lei sempre più "matta" di lui, e Pascoli che la schivava

La comicità ha vita breve, ma spesso si nutre dei tempi lunghi: di qui la formula secondo cui sarebbe la somma di “tragedia più tempo”. A volte però, dopo un improvviso trauma storico, drammi e valori di un’epoca cronologicamente vicina appaiono di colpo lontanissimi, fatui, ridicoli. Ci capita oggi, ricordando il 2019. Capitò, a partire dagli anni delle avanguardie e della Grande guerra, a chi volgeva lo sguardo alla belle époque, divenuta a un tratto un enorme deposito di kitsch. Si pensi alla letteratura. A D’Annunzio e Pascoli il ’900 deve molto: ma non ha potuto utilizzarli se non rendendoli irriconoscibili. Il Vate è ancora vivo quando si affermano Ungaretti e Montale, eppure è come se abitassero in mondi separati. Ancora più netta è la frattura nelle arti figurative: le opere che portano i segni di futurismo, cubismo o metafisica nulla hanno da spartire con l’enfasi decorativa di Sartorio o i ritratti mondani di Vittorio Corcos. Oggi però è finito anche il XX secolo: e noi che amiamo il vintage, e che coltiviamo nuovi bovarismi, vediamo il periodo del liberty più come un’età leggendaria che come una fonte inesauribile di parodie alla Paolo Poli.

 

Tuttavia leggendo “Non c’è cosa più dolce”, il bel libro appena uscito dal Melangolo in cui Francesca Sensini propone il carteggio tra la moglie di Corcos e Giovanni Pascoli, è difficile che alla commozione non si mescoli una certa ilarità. Restiamo pur sempre nipotini di Freud, e abbiamo il tic dello smascheramento: come dunque non maramaldeggiare almeno un po’ sulla comicità involontaria delle lettere pascoliane, gonfie di lagrime e pruderie a doppio fondo? Una versione del carteggio era già uscita nel ’72 a cura di Claudio Marabini, il quale aveva però tagliato o relegato in nota le lettere di Emma Corcos. Ora la Sensini le dà giustizia mettendola sullo stesso piano del poeta, e nei commenti discreti che alterna alla prosa dei due corrispondenti sottolinea il fascino del loro dialogo intimo. Tutto inizia grazie a Padre Pistelli, amico di entrambi, che nel 1897 fa leggere i “Poemetti” alla moglie del pittore. La Corcos, che oltre ad animare i salotti fiorentini pubblica racconti per ragazzi e testi religiosi, dimostra subito il suo spirito critico: loda l’autore, ma gli muove anche acute obiezioni. Con un epiteto che nel carteggio avrà fortuna, Pistelli gira a Pascoli i giudizi attribuendoli a un’“incognita”; e Pascoli, una volta rivelata l’identità della signora, le risponde punto su punto.

 

Pretende, al solito, che la sua lirica venga amata in toto per una sorta di autenticità extrapoetica, come se fosse una persona; ne difende gli eccessi allegorici; e soprattutto invita Emma a rileggere i versi che le paiono troppo gravi a voce bassa. In realtà lei, che con femminile understatement finge di avere un “piccolo cervello”, ha ben ragione nel cogliere gli squilibri tra il Pascoli domestico e quello solenne; e quando osserva che la strofa di un poemetto sta alle altre “come una stupenda cornice del Settecento, ad un soave quadro del Beato Angelico” trova un’analogia degna della più brillante critica novecentesca. Più avanti, mentre racconta con malizia come è sfuggita a D’Annunzio che voleva insegnarle la “scienza di amare”, anticipa perfino Benedetto Croce, riducendo l’opera del Vate a un puro fenomeno di sensualità o a una droga dagli effetti effimeri: c’è armonia in Gabriele, ma “il cuore non vibra mai”, scrive riecheggiando le parole di Leopardi su Monti. 

 

Tutt’altra cosa è il Pascoli. Davanti al quale assai presto, e fino alla sua morte avvenuta nel 1912, questa donna così piena di umorismo si lascia andare a entusiasmi da innamorata. Le lettere di Giovanni, che viaggia tra Bologna, Messina, Pisa e il rifugio di Castelvecchio, sono un continuo lamento di perseguitato (dai famigliari, dai vicini, dai parodisti della “Cavalla storna” o dagli studiosi positivisti che, come scrive in un lampo di intelligenza accesa dall’astio, “hanno perduto l’organo della sintesi, a forza d’esercitare solo quello dell’analisi”); le lettere di Emma, invece, sono un continuo elogio delle raccolte pascoliane in uscita (“Canti”, “Conviviali”, “Odi e inni”…). Anche la sua ironia si trasforma a poco a poco in un’arma pro Pascoli, come quando canzona le conferenze dei dotti con barbe da San Girolamo che stroncano le indagini genialmente deliranti di Zvanì sulla Divina Commedia.

 

Nell’Italia di Gian Burrasca e del terremoto di Messina, del processo Notarbartolo e delle opere pie, la Corcos arriva a pascolizzare l’intera famiglia, confessandosi sempre più “matta” e “gelosa” del poeta. Lui schiva gli incontri facendo il rustico – si vedranno cinque volte – ma lei seguita a invitarlo nelle sue residenze toscane, e fantastica addirittura di sposarlo per diventare (ci corre giù per la schiena un pascoliano brivido) “la sorella di Mariù”. Solo che Mariù Pascoli, questa Elizabeth Nietzsche romagnola, tiene Emma a distanza, e nasconde al fratello le sue ultime lettere. Il Pascoli del carteggio è quello che ha orrore delle nozze, considerate un tradimento del “nido”; è il Pascoli che dopo essere stato un giovane “ardente” e biondo come il suo re Enzo è divenuto un grosso contadino dal fisico in rapida decadenza, quasi fosse abitato da un doppio che lo deforma dall’interno mentre gl’ispira velleitari progetti civili (qualcosa di simile capiterà a una scrittrice che pure credeva nei “fanciullini”, Elsa Morante).

 

Eppure Emma, vedendolo, è ancora più sicura di amarlo. S’intende che l’amore resta quello di due creature unite “non radice sed vertice”. Qualunque altro esito sarebbe impensabile. Non siamo solo agli antipodi delle spregiudicatezze dannunziane, ma anche molto distanti dal maestro Carducci e dalle sue Lidie o Annie. Per non parlare delle storie tira-e-molla di pieno stile ’900: nella generazione successiva, l’idealizzazione fogazzariana del carteggio si rovescerà infatti nei crudi imbarazzi tra Gozzano e la Guglielminetti, e più tardi, su un diverso sfondo dantesco e con più astuta capitalizzazione letteraria, nello scacco che subirà davanti a Irma Brandeis un Montale ormai legato alla sua Mosca.