Édouard Manet, “Il balcone”, 1869 (Wikipedia) 

Proust ritrovato

Giulio Silvano

Nel centenario della morte possiamo finalmente leggere i “75 fogli” inediti. Merito di Bernard de Fallois, patriarca dell’editoria francese

Un ottimo modo per godersi il centenario proustiano, oltre a un Martini al numero 15 di place Vendôme, è mettersi a leggere I 75 fogli, pagine inedite che La nave di Teseo porta in Italia nella traduzione di Anna Isabella Squarzina con prefazione di Daria Galateria, che scrive: “Tutte le strade che nella Recherche si incontreranno a distanza di due, tremila pagine, qui subito confluiscono”. Questi scritti – pagine bianche di grande formato riempite fino ai bordi con minuziosi tratti – sono la prova che confuta un mito che troppo di frequente è legato all’immagine generalista di Marcel Proust, cioè che la sua vita sia divisa in due periodi, quello della mondanità nullafacente parigina e quello della scrittura matta e disperatissima da eremita. Da una parte quello delle foto con la racchetta da tennis a mo’ di chitarra, dei salotti e dei viaggi in macchina col suo autista, Agostinelli, dall’altra quello della malattia e dell’isolamento nella sua cameretta di boulevard Haussmann con le pareti di sughero. Il primo volume di Alla ricerca del tempo perduto – Du côté de chez Swann – esce nel 1913, a spese dell’autore presso Grasset, dopo esser stato rifiutato da tutti i principali editori francesi. Proust ha quarantadue anni e alle spalle solo una pubblicazione, I piaceri e i giorni, una raccolta di testi con prefazione di Anatole France uscita quando ne aveva venticinque, e alcune traduzioni di John Ruskin. Il secondo volume, All’ombra delle fanciulle in fiore, esce ben sei anni dopo per Gallimard e vince, con sorpresa della scena letteraria francese, il premio Goncourt – in mezzo c’è stata la Prima guerra mondiale, che ha ritardato tutto. A distanza abbastanza ravvicinata arrivano poi i successivi due volumi, e, dopo la morte di Proust nel 1923, usciranno gli ultimi tre a cura del fratello Robert, sette in totale.

  

La confutazione di un mito: che la vita di Proust sia divisa tra il periodo della mondanità nullafacente e quello della scrittura matta e disperatissima

 

Il mancato riconoscimento iniziale, l’opera postuma e le uscite ravvicinate negli ultimi anni hanno nutrito l’idea della totale dedizione alla scrittura, vista come una corsa contro il tempo per mettere la parola fin prima che arrivasse il decesso. Un ritmo incessante che è certo certificato – dalla fedele domestica Céleste, ad esempio, anche in video – ma che non diventa automaticamente sinonimo di inattività nei precedenti decenni di vita come molti hanno voluto credere, aumentando un’aneddotica mitologica. I 75 fogli mostrano che per tutta la vita, consciamente e inconsciamente, Proust ha lavorato, non solo in the back of his mind, ma anche su carta, al suo mega-romanzo mondo, alla sua Comédie humaine, iniziando a buttar giù i tasselli che prima o poi sarebbero stati inseriti in una iper-cornice, in una “cattedrale” – immagine che Proust usa a un certo punto nell’ultimo volume parlando della costruzione pezzo dopo pezzo, correzione dopo correzione dei suoi libri.

 

Come notano i vari prefatori nei 75 fogli sono già presenti non solo gli elementi, l’atteggiamento, i tic, ma proprio i momenti più memorabili dell’opera, come l’agognato bacio della buonanotte della madre. “‘Mamma’, mia madre si voltò stupita, poi il suo viso prese un’espressione arrabbiata. ‘Se non vai immediatamente a letto non ti rivolgerò mai più la parola’. Ma sapevo che adesso che era così irritata, non sarei mai riuscito a tornare a letto in quello stato d’animo”. O ancora, le descrizioni di Venezia: “Scendevo le scale di marmo tutto incappottato, con sottobraccio il plaid da buttarmi sulle spalle in gondola e i libri di Ruskin, e partivamo come per un viaggio per mare, prendendo il largo sul canal grande a colpi di remo, nel blu, sotto il sole, inspirando la brezza”. Tutte immagini e scene che migreranno poi nell’opera finale e che dovranno aspettare diversi decenni prima di vedere la loro forma perfetta. “Uno dei grandi meriti di queste pagine del libro futuro è quello di essere le prime che sono state scritte, nonostante siano le ultime che ci sono giunte”, scrive Jean-Yves Tadié, normalista ottantacinquenne che curò l’edizione Pléiade della Recherche negli anni Ottanta. 

  

In pochi avevano visto i “Soixante-quinze feuillets” prima che venissero ritrovati nel 2018 nello studio di De Fallois, quando muore a 91 anni

 
Ma come mai queste pagine, questi preziosi manufatti, possiamo vederli solo adesso? Dei Soixante-quinze feuillets – che poi sono in realtà 76 – si conosceva l’esistenza, ma in pochi li avevano visti prima che venissero ritrovati nel 2018 nello studio di Bernard de Fallois, quando muore a 91 anni. De Fallois è un personaggio centrale per il proustianesimo e per la storia dell’editoria europea. Francesissimo – ci sarebbe voluto Balzac per inventarselo – nasce nel 1926 nel sedicesimo arrondissement, dopo esser stato alla guida dei Livre de Poche, i tascabili per eccellenza, dal ’68 al ’75 è direttore generale del gruppo Livre/Hachette e poi delle Presses de la Cité, che si specializza in gialli e thriller e negli altri tascabili nazionali onnipresenti, i Pocket, per poi creare alla fine degli anni ottanta la sua casa editrice, la Éditions de Fallois, con l’obiettivo di staccarsi dai giganteschi gruppi editoriali che si vengono a creare in quel periodo e verso cui è molto critico. Amico di Georges Simenon – lo va spesso a trovare in Svizzera – di Marc Fumaroli e di Marcel Pagnol, a De Fallois si devono la scoperta e il lancio di Joël Dicker, bestsellerista ginevrino millennial il cui La verità sul caso Harry Quebert, uscito nel 2012, supererà Dan Brown nelle classifiche. Amatissimo in Italia, Dicker è appena tornato in libreria – code chilometriche per il firma-copie in piazza Duomo a maggio – con Il caso Alaska Sanders. Nel libro L’enigma della camera 622 il giovane scrittore omaggia De Fallois, e non smette mai di citarlo come mentore e amico – “E’ stato un grande editore e l’uomo che ha cambiato la mia vita, decidendo di pubblicare un manoscritto che era stato rifiutato da tutti gli altri”. Nei necrologi Bernard de Fallois viene chiamato “patriarca dell’editoria francese”, o “monstre sacré”, e gli viene riconosciuta una grande capacità di capire il mercato. Riesce sempre a mantenere totale riservatezza sulla sua vita privata, le interviste o le partecipazioni a programmi televisivi sono rarissime e la sua casa editrice, in rue La Boétie, non aveva nemmeno una targa sul palazzo. Curioso che la sede, l’ufficio dove l’editore andava ogni giorno con la sua vecchia Mercedes, si trovava a 450 metri dall’appartamento in cui visse Proust fino al 1919, al 102 di boulevard Haussmann – qui c’è invece una targa che ricorda lo scrittore.

  

De Fallois li scopre negli anni 40-50 frugando nell’attico di Marcel. Lo autorizza la nipote Suzanne Mante-Proust, detta Suzy

  
Da ragazzo De Fallois, dopo la Seconda guerra mondiale, si appassiona a Proust che legge per la prima volta a casa di un amico conosciuto quand’era sfollato a Mans. Vede per la prima volta i volumi della Recherche a quindici anni nella libreria della madre dell’amico, una donna imparentata alla lontana con Proust. “Devo leggerli?”, “Provaci”. In una delle rare interviste parla della prima lettura come di una droga. All’università fa la tesi su Proust, all’epoca per nulla considerato come valido materiale accademico, “la Sorbona allora era una vecchia signora prudente”. Sono pochissimi a studiarlo allora, giusto un paio di francesi andati a lavorare nelle università americane. Dopo aver letto e riletto le migliaia di pagine, De Fallois si incuriosisce sempre di più sulla genesi del magnum opus proustiano e si chiede: è possibile che non esista niente prima? Come mai non c’è materiale preparatorio? Scoprirà che non è così. Negli anni Quaranta e Cinquanta molti degli amici e dei conoscenti di Marcel Proust sono ancora in vita e così contatta la nipote dello scrittore, Suzanne Mante-Proust, detta Suzy, figlia del fratello medico Robert. Suzy gli permette di frugare nell’attico dove ci sono ancora carte e oggetti di Marcel e dove scopre diversi manoscritti, tra cui due libri incompiuti (oltre ai famosi 75 fogli). I due libri, Jean Santeuil e Contre Sainte-Beuve De Fallois li pubblicherà rispettivamente nel 1953 e nel 1954. Il primo è un romanzo, definito dai critici come il “cartone preparatorio” della Recherche, scritto a cavallo del secolo e abbandonato dopo cinque anni di scrittura – nella corposa corrispondenza non se ne fa mai menzione. Scrive Mariolina Bongiovanni Bertini nella prefazione all’edizione italiana Einaudi tradotta da Fortini: “I personaggi di questo primo tentativo romanzesco rinasceranno quasi tutti nell’opera più matura di Proust”. L’altro libro ritrovato da De Fallois, Contro Sainte-Beuve, è invece quasi un manifesto della posizione proustiana sull’autofiction, un testo che si schiera contro l’importanza del conoscere la vita privata di un autore per capirne davvero l’opera. Entrambi questi due testi, che Proust scelse di non pubblicare mai, appoggiano le tesi che già De Fallois aveva in gioventù: in primis che la Recherche non era nata per magia, di colpo, quando Proust si chiuse in casa a scrivere e basta – non era possibile che “questo monumento della letteratura francese e mondiale fosse scesa dal cielo senza alcun segno premonitore”, scrive; in secundis che sono inutili tutti i tentativi di scovare la verità della biografia proustiana nei suoi scritti, tema che Proust tratterà nell’ultimo volume Il tempo ritrovato, è inutile mettersi a trovare chi è chi tra i personaggi della vita mondana parigina e dei salotti. 

 
L’accanimento dei lettori e degli studiosi a trovare parallelismi tra reale e romanzesco, cercando i corrispondenti dei Guermantes, di Swann e di Charlus, fa venire in mente quello che disse Luciano Bianciardi quando Indro Montanelli si complimentò per La vita agra: “Pensa che sia un’autobiografia”. “Un libro è il prodotto di un io diverso da quello che si manifesta nelle nostre abitudini, nella vita sociale, nei nostri vizi”, scrive Proust. Se Jean Santeuil raccoglie i contenuti autobiografici, Contro Sainte-Beuve possiamo considerarlo l’impianto teorico su scrittura, finzione e romanzo. E i 75 fogli? Anche questi trovati nell’attico di Suzy Mante-Proust sono una mappatura condensata di alcuni dei più importanti passaggi che prendono per la prima volta la forma in prima persona – rispetto a Jean Santeuil, che è invece in terza, scritto fino al 1899 – e verranno modificati e arricchiti e inseriti in una narrazione ampia a distanza di anni nelle 3.724 pagine finali dell’opera. Sono stati iniziati nel 1907 e rimaneggiati fino al 1912 e poi abbandonati per lavorare a Contro Sainte-Beuve. Senza rivelarlo, De Fallois ne aveva già inseriti alcuni passaggi proprio nell’edizione del ’54 di Contro Sainte-Beuve. Una sorta di Max Brod postumo, De Fallois, parallelamente al suo lavoro di editore è stato fondamentale per far conoscere le diverse stratificazioni di Proust, difensore di un’immagine opposta a quella che in troppi hanno del grande scrittore francese, cioè di un uomo colto e ozioso che non aveva fatto nulla fino a trentacinque anni, “prima di lanciarsi, un bel giorno, nella redazione di un’opera immensa”. In contemporanea coi 75 fogli La nave di Teseo fa uscire anche una raccolta di Saggi su Proust scritti da De Fallois, dove oltre alle diverse introduzioni ai volumi della Recherche, ci sono sette conferenze che raccontano con precisione la genesi dell’opera, dove trova una quadra la sua ossessione che lo attanaglia fin da quando legge per la prima volta Proust da adolescente.

  

Le romantiche speranze che prima o poi il nostro autore o autrice preferita ci possa regalare qualcosa finora rimasto sepolto in qualche archivio

 
Quando nel 1962 Suzy consegna alla Bibliothèque Nationale i vari manoscritti dello zio, mancano i 75 fogli e per anni appassionati e studiosi si chiedono dove siano. Il mistero è risolto appunto nel 2018: erano in una cartellina di cartone nell’archivio di De Fallois e nel testamento c’era il desiderio di donarli alla biblioteca nazionale al momento della morte – ora sono disponibili per tutti i curiosi e gli accademici, curati dalla pronipote dello scrittore Nathalie Mauriac Dyer, figlia dello scrittore Claude Mauriac e di Marie-Claude Mante, figlia di Suzy. Insieme a questi, nelle cartelline dell’eminente editore, c’erano anche dei racconti che sono stati pubblicati in Francia nel 2019 e poi in Italia da Garzanti col titolo Il corrispondente misterioso. “Si tratta di un tesoro nascosto dalla polvere, fogli attaccati tra loro con delle graffette e mescolati ad altri documenti”, ha detto al Figaro Dominique Goust, amico e collaboratore di De Fallois, il primo a rendersi conto della qualità del contenuto frugando nell’archivio dell’editore. La storia di queste pepite d’oro della letteratura mondiale tiene aperte romantiche speranze che prima o poi il nostro autore o la nostra autrice preferita ci possa regalare qualcosa fino ad ora rimasto sepolto in qualche archivio privato, in qualche cassaforte o in mezzo ad altri documenti considerati cartacce, così com’è successo con Il giardino dell’Eden di Hemingway o come si spera succederà con gli attesissimi romanzi leggendari di Salinger. Ci si chiede – domanda destinata a restare senza alcuna risposta – cosa avrebbe pensato Proust di tutta questa storia, che ricalca ancora una volta l’importanza e il potere di editori, eredi e curatori sulle grandiose opere d’arte prodotte da chi ormai è sottoterra.

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