(foto di Alexei Maridashvili su Unsplash)

la seconda vita dei cattivi

Le grandi catene strozzavano i piccoli librai. Ora competono con Amazon e sono diventate buone

Marco Bardazzi

Il mondo dell'editoria, grande e piccola, adesso tifa Barnes & Noble, il bookshop più grande d'America, contro i giganti dell'ecommerce. Il ritorno al core business dei libri come alternativa alle piattaforme del web

"C’è posta per te” è uno di quei film che in America piacciono a tutte le generazioni, senza distinzione tra repubblicani e democratici. I millennial ricordano di averlo visto da bambini e lo riguardano per prendere in giro i genitori della generazione X, per i quali la mail di America Online negli anni Novanta era il massimo dell’innovazione. I boomer lo cercano su Netflix con la nostalgia che hanno per qualsiasi cosa del Novecento. Persino i ragazzi della GenZ, quando lo scoprono, si divertono a far domande su quell’ingenuo mondo digitale che sembra lontano qualche èra geologica, nonostante sia ambientato solo nel 1998.

 

La storia d’amore tra Meg Ryan e Tom Hanks che nasce via mail, in un’epoca che precedeva di un decennio i social, è solo uno dei motivi per cui vale la pena rivederlo oggi. In realtà “You’ve Got Mail”, nel titolo originale della geniale commedia manhattaniana di Nora Ephron, è una straordinaria lezione di business per l’epoca di disruption digitale che viviamo da un ventennio. Perché ci racconta come il cattivo di un tempo possa diventare, una generazione dopo, il buono da proteggere e salvare.

 

Se n’è accorto il New York Times, che ha rispolverato il ricordo della coppia Ryan-Hanks per raccontare una realtà che all’epoca sembrava impensabile: come le librerie indipendenti in tutti gli Stati Uniti stiano oggi facendo il tifo per la sopravvivenza della catena di negozi di libri Barnes & Noble, che da anni sembra sempre sull’orlo di gettare la spugna e dichiararsi sconfitta dal nuovo cattivo, Amazon. Uno scenario che neppure la creatività della Ephron avrebbe potuto prevedere, quando inventò il personaggio della libraia indipendente dell’Upper West Side amata da tutto il quartiere, che viene mandata in rovina e costretta a chiudere per l’arrivo di un megastore che all’epoca – senza nominarlo – si ispirava proprio a Barnes & Noble, con Tom Hanks nei panni dell’improbabile cattivo di turno come manager della catena.

 

Oggi i giganteschi negozi pieni di libri di Barnes & Noble, dove ci si può perdere per ore tra gli scaffali e immergersi nella lettura seduti sulla moquette, sembrano il Davide della situazione sostenuto dall’incoraggiamento di tutta l’industria del libro, dalle case editrici ai piccoli bookstore, che temono l’effetto che il Golia di Jeff Bezos può avere alla lunga su tutto l’ecosistema della carta. Quando la catena di megastore giorni fa ha annunciato i propri risultati del 2021, con una crescita delle vendite del 3 per cento rispetto ai dati pre pandemia del 2019 e con un aumento del 14 per cento nella vendita di libri, si è levato un grido di giubilo da tutto il settore. Meg Ryan adesso fa il tifo per il cattivo Tom Hanks, perché quest’ultimo resiste contro uno percepito come più cattivo di lui.

 

Oren Teicher, ex presidente dell’American Booksellers Association, che lanciò anche azioni antitrust contro B&N negli anni Novanta, ha sintetizzato l’umore del settore: “C’è stato un tempo nel quale erano percepiti non solo come il nemico, ma come tutto ciò che era sbagliato nel mondo corporate della vendita di libri”. Ora però l’Associazione è con loro contro “un nemico comune”: Amazon, appunto. Insieme a Teicher, piccoli e grandi negozi di libri, agenti letterari, case editrici hanno riversato sul New York Times tutto il loro entusiasmo per quelli che vengono visti come gli effetti della “cura inglese” a cui si è sottoposta B&N. Il nuovo eroe dei librai d’America è diventato il britannico James Daunt, l’amministratore delegato di Barnes & Noble, messo alla guida della società nel 2019 dai nuovi proprietari della catena, che a loro volta hanno familiarità con le accuse di essere tra i “cattivi”: il fondo Elliott, noto in Italia soprattutto per le vicissitudini di Milan e Telecom. Daunt è un libraio londinese che deve la propria fama prima al successo dei suoi negozi Daunt Books, poi al rilancio riuscito di Waterstones, la principale catena di librerie del Regno Unito.

 

La lezione di business che insegna il caso B&N non vale solo per il mondo dei libri. Quello che ha fatto Daunt è stato fondamentalmente far tornare i 600 negozi di Barnes & Noble a concentrarsi sulla cosa più importante che vendono, i libri. Cacciando così dal tempio tutte le mercanzie varie che si erano accumulate negli anni nelle librerie, quando quattro precedenti amministratori delegati arrivati e licenziati in cinque anni avevano cercato di vendere un po’ di tutto, dalle magliette alle batterie. Daunt ha inoltre dato maggiore libertà ai gestori di ogni singola libreria, cominciando a considerarli imprenditori di se stessi e riducendo il peso delle decisioni prese nel quartier generale di New York. La Dottrina Daunt è in fondo antica come l’arte della vendita: fai bene, fino all’ossessione, quello che sai fare e non disperderti in iniziative che non ti appartengono. E’ un approccio che dovrebbe essere quasi scontato, ma che l’èra digitale ha reso difficile da perseguire. La Platform Economy teorizzata per la prima volta nel 2011 da Marc Andreessen sul Wall Street Journal è oggi una realtà evidente. Le grandi piattaforme (Google, Apple, Facebook, Amazon) si sono mangiate interi mondi produttivi e commerciali e hanno stravolto attività che avevano processi radicati nel tempo. Le librerie sono tra queste (ma anche i giornali).

 

Per anni si è cercata una risposta alla sfida delle piattaforme, riconoscendo la ricchezza e la crescita che ciascuna di esse ha portato, anche in termini di creazione di valore e di lavoro, ma provando a creare ecosistemi in cui sopravvivessero anche le realtà più piccole. Nel campo dei libri, è sopravvissuta solo B&N, uno dei due big che esistevano al momento dell’arrivo di Amazon. L’altro colosso americano, Borders, ha chiuso proprio nel 2011 quando Andreessen teorizzava la Platform Economy, in un momento in cui aveva più di 500 negozi negli Stati Uniti con 20 mila dipendenti. B&N e Borders avevano entrambe cercato, all’inizio, di rispondere alla sfida di Amazon giocando sullo stesso terreno. E quindi con giganteschi investimenti per trasformarsi in catene di e-commerce. Una strategia dispendiosa e perdente, di fronte alla crescita inarrestabile della società di Bezos e alla sua straordinaria capacità logistica e organizzativa. Borders era crollata, mentre Barnes & Noble per anni ha cercato di trovare una giusta ricetta per sopravvivere.

 

Rinunciare al digitale e tornare a vendere libri alla vecchia maniera sembrava rischioso e perdente. C’era l’esempio inquietante di Blockbuster, la catena di noleggio di dvd che era rimasta fedele a sé stessa anche mentre Netflix abbandonava il proprio business di consegna di dvd a casa e si spostava sullo streaming. Oggi Blockbuster viene citata nei corsi di gestione d’impresa nel capitolo dedicato alle “aziende che non hanno capito l’innovazione”, in compagnia di brand come Kodak, troppo cauta nel valutare il futuro della fotografia digitale, o Nokia. L’azienda finlandese poteva essere un’altra case history interessante da studiare per B&N, non tanto per il tipo di produzione che faceva – i telefonini – quanto per la cultura aziendale che l’ha fatta sparire da un’industria di cui era leader mondiale.

 

A distanza di anni, resta ancora difficile capire come abbia fatto a implodere un colosso come Nokia, che sopravvive come multinazionale tecnologica, ma è stata spazzata via dalla telefonia mobile. Era l’azienda che in questo campo aveva fatto tutto meglio degli altri. Il primo telefono cellulare completamente portatile era stato un Nokia, nel 1987. Lo standard Gsm che fece decollare la telefonia mobile era stato in gran parte sviluppato dall’azienda scandinava, insieme a Siemens, e non a caso la prima telefonata al mondo sulla rete Gsm era stata effettuata dal primo ministro finlandese Harri Holkeri, il 1° luglio 1991. L’anno dopo, il Nokia 1011 era diventato il primo cellulare Gsm in commercio.

 

Nel 1998 la società era diventata il venditore di cellulari numero uno al mondo, con 20 miliardi di dollari di fatturato e 2,6 di profitto e poco tempo dopo il suo Nokia 1100 aveva stracciato ogni record di vendita dei telefoni cellulari. Nel momento di maggior successo nell’anno 2000, quello della febbre della New Economy e delle società Dot-Com, Nokia aveva 55 mila dipendenti e da sola rappresentava il 4 per cento del pil della Finlandia e il 21 per cento delle sue esportazioni. La sua quota del mercato globale dei cellulari in quel momento era del 30 per cento, quasi il doppio del primo tra i rivali, Motorola. Poi era arrivata la disruption. Per qualche tempo, intorno al 2006, i cellulari avevano cominciato a essere chiamati smartphone, ma Nokia, così come i produttori del BlackBerry, non avevano capito cosa li rendesse davvero “smart”. Il futuro aveva le sembianze dell’iPhone di Steve Jobs e per sfidarlo serviva un software aperto come Android, sviluppato da Google e poi reso universale da Samsung e molti altri. Nokia era rimasta ferma alla propria idea di telefono e di software, era entrata nell’orbita di Microsoft e nel giro di pochi anni era stata schiacciata e cacciata dal mercato.

 

Più che un problema tecnologico, era stato un problema culturale: l’azienda finlandese non aveva nel Dna le capacità necessarie a rispondere a una sfida esistenziale come quella portata dalla Apple. Così come non le ha avute Borders e come per lungo tempo è sembrata non trovarle Barnes & Noble. 
Il modello che alla fine la catena di librerie americane ha scelto ricorda un’altra azienda entrata in crisi e poi ripartita alla grande: Lego. Anche i produttori danesi dei mattoncini più amati dai bambini anni fa si erano persi nel mondo della disruption digitale. Visto che i loro piccoli clienti passavano sempre più tempo davanti ai videogiochi, avevano pensato che valesse la pena trasformarsi in una società di videogame. Ma i mattoncini del Lego sono eccezionali per quello che sono, un po’ come i libri di Barnes & Noble, mentre sui giochi digitali ci sono tanti altri player in campo e non è detto che chiamarsi Lego significhi poter intercettare il popolo delle PlayStation e delle Wii.

 

Solo quando è tornata al “core business” e a quello che sa fare meglio, è ripartita alla grande. Aiutata da un alleato vecchio stile come il cinema, che ha rilanciato un brand in affanno con una serie di film firmati Lego. Oggi è una realtà così credibile da dominare da anni la classifica dei marchi con la miglior reputazione al mondo (stilata ogni anno da RepTrak), nonostante sia ancora in gran parte un’azienda che produce pezzi di plastica in un momento storico dominato dall’attenzione per l’ambiente. Merito anche dell’autenticità con cui Lego ha saputo raccontare la propria trasformazione in corso verso un futuro a emissioni zero. 
Barnes & Noble adesso prova a essere la Lego delle librerie. La cura di Daunt si è concentrata sull’attenzione al cliente, con punte di vera e propria ossessione per i dettagli. E’ partito un programma per rinnovare le vecchie librerie, molte delle quali con moquette così lise e sporche che non invitavano più all’esperienza di sedersi per terra a leggere un libro. Ed è stato trasferito anche in America, a partire dal negozio “flagship” di Union Square a New York, quel gusto di trattare il libro come un’opera d’arte che Daunt aveva messo già in pratica a Waterstones.

 

A Londra ancora si ricordano come si sia battuto per mesi, sulle riviste specializzate, per sostenere la propria teoria secondo la quale gli scaffali di esposizione dei libri devono avere un’inclinazione di tre gradi. Alcuni designer rinomati insistevano sul fatto che l’inclinazione corretta fosse quattro gradi, così da dare maggior luce e visibilità alle copertine. Ma Daunt ha vinto la sfida dimostrando che a quattro gradi il dorso del libro cominciava lievissimamente a piegarsi. Per non parlare delle teorie di Daunt su come disporre i libri sui tavolini della libreria. Il tempo dirà se B&N è la nuova Lego o se alla fine si arrenderà come Blockbuster. Per ora la catena americana si gode il ritrovato ruolo di personaggio buono, che in effetti addosso a Tom Hanks calza meglio di quello del “villain” dei film: una parte che in questo momento spetta ai vari Bezos, Zuckerberg e Musk