facce dispari

Ilide Carmignani, il ritmo misterioso della lingua

Francesco Palmieri

Lo spagnolo, l'America Latina. Come si fa a trasporre in italiano l'umorismo di Bolaño e la prosa visiva di Sepulveda? Intervista alla traduttrice lucchese

Con enfasi perdonabile, Ilide Carmignani può essere collocata tra le figure mitiche nella selva semioscura dei traduttori italiani, giacché se per i comuni guastatori lessicali è “mitico” anche chi “asfalta” qualcuno con una battuta, non potremmo accostare aggettivo minore a chi ha trasposto nella nostra lingua 17 libri di Bolaño, 4 di Borges, 3 di Cortázar, 6 di Almudena Grandes, 5 di Pérez-Reverte, 32 di Sepúlveda senza contare la nuova traduzione di ‘Cent’anni di solitudine’ di García Márquez (e poi Neruda, Onetti, Paz, Walsh). Un elenco non per enfasi impreciso, ma per difetto.

Nata a Lucca da una famiglia paterna antica quanto il vino Carmignano, cosa la spinse verso lo spagnolo?

Con la mamma americana, l’inglese non aveva il fascino del mistero. All’università scelsi tedesco e spagnolo, che poi preferii perché è una lingua sorella dell’italiana, perciò può ingannare ma ne cogli sin dall’inizio la rete di significati: leggendo una frase, comprendi le scelte dello scrittore fra le infinite possibili.

Ma il primo incontro emotivo con la Spagna quando fu?

In quarta elementare la maestra mi assegnò una ricerca sulla Spagna: rimasi affascinata dai vestiti delle ballerine di flamenco, insomma lo stereotipo andaluso che oscura il mondo ispanico del nord, quello celtico dove suonano ancora la cornamusa. Poi al liceo scoprii García Lorca, Alberti, Neruda. E i latinoamericani.

Fra le tante letterature espresse dalla lingua spagnola dove si sente più di casa?

Ho grande simpatia per l’America Latina, perché a volte i cugini attraggono più dei fratelli. Nel lunfardo argentino ritrovi non solo l’italiano, ma l’emiliano, il padovano.

Con quale accento parla spagnolo?

Non credo di averne uno. Dovunque andavo mi chiedevano di dove fossi. Ho vissuto un po’ a Madrid, a Salamanca, Santander e sono stata un anno alla Brown University negli Stati Uniti, la migliore università di ispanistica: frequentata dagli Agnelli, dai figli dei presidenti americani ma anche da una quota di studenti caraibici, portoricani di New York. La prima volta che li sentii, pensai parlassero un’altra lingua.

Qual è il primo passo per una traduzione?

Il ritmo della lingua, che è percepibile anche senza misure metriche nella prosa. Tanti scrittori costruiscono il senso partendo proprio dal ritmo. La traduzione deve tenerne conto.

Il metro preferito nello spagnolo?

L’ottonario.

Lo scrittore più divertente da tradurre?

Bolaño per il sottile umorismo. Mi diverte anche Cortázar, difficilissimo da tradurre perché porta ai limiti il linguaggio con una sfida che non concede rilassamenti, un maestro dei racconti brevi. Bolaño li cuciva in romanzi, Cortázar sperimentava.

Borges?

In musica sarebbe Bach. Cresciuto con l’inglese, il suo spagnolo sembra trasposto, tanto che alcuni colleghi hanno la sensazione, traducendolo in inglese, di riportarlo all’originale. La scrittura di Borges è un diamante. Quella di Cortázar è un nastro di Möbius.

Sepúlveda? Lei è stata la sua ‘voce’ italiana.

Un uomo di grandissima generosità. Mentre scalava le classifiche in Europa, mi fece chiamare dall’editore a Milano: per una traduttrice di trent’anni era un esame, spesso l’autore non lo conosci o lo sfiori pochissimo. Appena mi vide m’abbracciò e mi ringraziò. Da allora tutto quel che di suo usciva in Italia, articoli compresi, volle farlo tradurre da me. ‘Lucio’ è stato un gran regalo della vita.

Dopo la morte gli ha dedicato il libro ‘Storia di Sepúlveda e del suo gatto Zorba’. Ebbe una biografia esagerata, come tanti romanzi assieme: giornalista, guerrigliero, esule, antropologo, attivista e molte altre cose.

Sì, per vivere ha persino guidato camion tra Amburgo e Istanbul. Il suo dono straordinario era inquadrare subito gli uomini, mentre ci sono intellettuali sfiniti sui libri che si perdono nell’analisi del reale.

E la sua prosa?

Molto visiva. Da ragazzo aveva lavorato in una radio libera: raccontava i film ai cileni che vivevano troppo lontano da una sala per andarli a vedere. La rubrica si chiamava ‘Il cinema a casa vostra’. Un ottimo esercizio per una scrittura che avanza per immagini e dà voce a chi non l’ha. Avendo lavorato nella ‘nera’ al Clarín imparò a stare sul pezzo e aderire alla verità. Studiò anche drammaturgia, perciò i suoi dialoghi sono meravigliosi.

Come rendere la prosa di “chi non ha voce” in italiano? Far parlare in modo credibile un contadino, un indio?

Con l’italiano neostandard le maglie si sono allargate, ma non si può cadere nei regionalismi ammenoché non entrino nella lingua nazionale. La lingua delle traduzioni invecchia velocemente non tanto perché si cala nel presente quanto perché, per evitare di essere discussa, fa riferimento alla norma. Quando lavorai su ‘Cent’anni di solitudine’ mi resi conto che la precedente traduzione di Cicogna toscaneggiava. Io stessa devo stare attenta a non farlo.

Non ha voglia di scrivere un romanzo?

È questione di temperamento. Lo scrittore è più esibizionista e il traduttore più guardone. Però mai dire mai.

Un consiglio a chi traduce?

Difendersi dalla lingua da cui traduci. Un tempo ero completamente immersa nello spagnolo, ora ho imparato a non farmi invadere. Continuo a studiarlo ma raffino sempre l’italiano. La Raccomandazione di Nairobi del ’76 suggeriva che non si deve tradurre verso un idioma che non sia la lingua madre. Mi pare giusto: è il tuo strumento e non finisci mai di impararlo.