facce dispari

Heddi Goodrich, una scugnizza americana in Nuova Zelanda

Francesco Palmieri

L'infanzia a Washington, poi il viaggio che le ha fatto scoprire Napoli, a cui ha dedicato due romanzi: "Solo qui sento il bisogno di tornare". Intervista

Si muove su tre poli il mondo dispari di Heddi Goodrich, americana di nascita ma con la faccia da scugnizza mediterranea: Washington dove è nata, Auckland in Nuova Zelanda dove vive, Napoli dove ha studiato lasciandoci un bel po’ del proprio pound of flesh. Per la voglia di tornare ha scritto due romanzi che ne parlano: Perduti nei Quartieri Spagnoli e L’americana, usciti per Giunti a distanza di due anni l’un dall’altro. Il primo è dedicato alla sua vita da studentessa universitaria e il secondo alla sua “mamma” italiana di Castellammare di Stabia, che l’accolse a sedici anni per uno scambio culturale maturato dal caso – ma chi ci crede – o dal fato, cui crediamo di più. O almeno crede lei perché così ha scritto: “E infatti Napoli non era mai una scelta. Era un regalo che ti veniva imposto con le spalle al muro, una questione di nascita o di destino”. Poco tollerati da chi persegue cocciuti percorsi pragmatici, sogni e segni guidano invece persone come Heddi. E le suggerirono quando s’accinse al primo libro di abbandonare l’inglese per l’italiano, che lei parla con lieve accento napoletano, sicché, facendosi “anema e curaggio”, sfidò la narrativa nella seconda lingua.

Come capitò a Napoli? Quando?

Sin da piccola sentivo di non appartenere completamente al luogo dove ero nata, come adesso non appartengo totalmente a Auckland, per quel senso sottile di estraneità che mi pervade. Chiesi alla mia famiglia di fare un’esperienza all’estero. Non potevo scegliere dove sarei andata e mi capitò Castellammare: era il 1986, poi restai a Napoli per frequentare l’università e mi laureai a L’Orientale in lingua bulgara e in russo.

Perché decise di restare?

Non appena arrivai ebbi la percezione che già conoscevo il posto, come se ci fossi ritornata per compiere un destino. Anche quando sono andata via non è stato un addio, solo un arrivederci. Ho vissuto in diversi Paesi ma è solo a Napoli che sento il bisogno, e la certezza, di tornare. Nel destino ho trainato la famiglia: papà e la mia matrigna vennero spesso a trovarmi e si legarono moltissimo a quei luoghi, mio fratello sposò una ragazza italiana. Con i miei figli di nove e tredici anni parlo spesso in italiano e per certe espressioni intraducibili anche in napoletano.

Il suo ritratto dei Quartieri Spagnoli negli anni Novanta richiama un bel film di Mario Martone, ‘Teatro di guerra’, sempre ambientato lì. Suoni, voci, sapori. Ma anche la violenza che li attraversa.

Lo struggimento che mi procura il ricordo è accentuato dal contrasto con la casa dove vivo adesso: qui mi sveglio e sento il profumo dei gelsomini, il cinguettio degli uccelli. Nei Quartieri ero sopraffatta dalle urla delle vicine al mattino, dagli odori dei cibi cucinati, dalla cacofonia tra i rumori e le voci degli ambulanti di cui ognuno produceva una linea melodica, spesso inghiottita dalla musica sparata dagli altoparlanti portatili. Un’aggressione sensoriale che mi stimolava e mi faceva soffrire, che respingevo ma mi alimentava e mi riempiva. Verso la fine del periodo napoletano avevo solo voglia di pace emotiva, eppure la mancanza di quegli stimoli mi ha suscitato grande malinconia.

Nella dimensione onirica recupera il posto nei Quartieri?

I miei sogni non raccontano il passato ma l’immediato futuro, il prossimo passo. Prima di andare a Napoli, quando non sapevo quale fosse la mia destinazione, sognai un luogo dove antiche colonne senza un tetto spuntavano da una sorta di laghetto con l’acqua molto bassa. Solo qualche anno dopo, visitando il tempio di Serapide a Pozzuoli, scoprii che lo avevo sognato. All’epoca non c’era Internet né mi ero mai documentata. Un episodio più recente fu la morte di Maradona: sognai di stare a Napoli tra gente che piangeva disperata, andando di qua e di là come se ci fosse stata un’esplosione senza suono. La folla confluiva verso una luce ovale, rossastra, sormontata da una nuvola bianca. Mi svegliai preoccupata e andai sul web, dove appresi che era morto el pibe. Dopo un paio di giorni il fotografo Sergio Siano pubblicò un’immagine dello stadio illuminato, con quella sorta di alone bianco sulle luci rosse. Avevo captato in sogno l’inconscio collettivo della città, quel fortissimo momento emozionale.

Perché studiò bulgaro e russo?

Il russo fu un abbaglio: l’amore per Cechov e Dostoevskij mi fece credere conseguenziale l’accesso alla lingua. Non fu così. Scelsi il bulgaro perché la mia migliore amica era bulgara. Fu proprio suo fratello che una volta trasferitosi in Nuova Zelanda mi suggerì, quando lasciai Napoli, di venire a vivere qui. Neppure avevo idea di dove fosse, presi un biglietto aereo e provai. Sono rimasta. C’è una bellezza della natura che cattura chiunque.

Come spiega questa sua biografia fra le distanze?

Con la danza tra la volontà personale e il destino che ci siamo scelti tutti prima di incarnarci in questa pelle. Forse sappiamo da prima quali percorsi dobbiamo fare, quali lezioni imparare e chi incontrare.

In questo istante cosa farebbe?

Mi teletrasporterei a piazza Plebiscito e m’incamminerei verso via Emanuele De Deo, per mangiare la pizza con salsiccia e friarielli sul terrazzo del palazzo dove abitavo.

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