Facce dispari

Gerardo Masuccio, l'Utopia dei libri dimenticati

Francesco Palmieri

"I grandi editori selezionano ciò che è già arrivato nel mondo anglofono con letture spesso esternalizzate, poi decidono cosa può funzionare. La nostra casa editrice invece può conseguire obiettivi di sostenibilità economica con testi che ad altri non converrebbero". Intervista al fondatore di Utopia, in libreria dal 2020

Il secondo Masuccio Salernitano, dopo il novellista quattrocentesco delle antologie, si chiama Gerardo, ha trent’anni ed è nato per la precisione in un paesino dell’entroterra campano che guarda a Eboli come a un centro maggiore e che avrebbe incuriosito Sciascia per la sua ingarbugliata storia di etruschi, longobardi, garibaldini e nomi sbagliati: Olevano sul Tusciano, seimila e passa anime, meritevole di racconto in un’altra occasione.

Gerardo Masuccio è fondatore, editor e visionario di una casa editrice dal nome coerente al progetto: Utopia, nata a Milano alla vigilia della pandemia – gli eventi assecondano sempre – e approdata in libreria col primo titolo a settembre 2020. Se quel titolo non fosse stato un romanzo dello splendido dimenticato Massimo Bontempelli, e se non fossero seguiti il rilancio del Nobel spagnolo Camilo José Cela, del Nobel italiano Grazia Deledda, del quasi Nobel svizzero italiano Piero Scanziani, se così non fosse stato, uno diffiderebbe dell’Utopia di Masuccio il quale va pescando – e pescherà – autori da culture che con legittima insolenza definiamo “esotiche”, sospettosi del noto malanno che trasforma un passaporto più recente o un’etnia meno egemone nell’Apriti sesamo di campus prestigiosi, di espiatori seminari postcoloniali e della stessa Accademia di Svezia. Con Buona Pasqua ad Harold Bloom (r.i.p.) e alla residua pattuglia degli inattuali canonisti d’Occidente.

 

Masuccio, perché esordire con ‘Gente nel tempo’ di Bontempelli?
Perché per leggerlo ero costretto ad andare in biblioteca. Dovendo costruire un catalogo ex novo, ho pensato di cominciare da un autore trascurato da decenni non per ragioni letterarie ma storiche, politiche, sociali.

 

Quindi Cela, con La famiglia di Pascual Duarte e L’alveare.
Cela è stato dimenticato in Italia perché è un realista puro e abbiamo molti autori che gli somigliano. Il figlio aveva ricevuto proposte da grandi editori ma ha ceduto i diritti a Utopia e ha fatto bene: le grosse case hanno cataloghi enormi in cui non sarebbe stato fra le priorità, mentre una realtà come la nostra, ma che distribuisce i titoli con attenzione, ha potuto curarlo meglio. In Italia s’è parlato di Cela più in questi due anni che negli ultimi venti.

 

E Scanziani?
Ne abbiamo ripubblicato due opere e una terza l’anno prossimo. Conta anche in questo caso l’esperienza di lettore: il mio bisnonno aveva un suo libro e lo lessi da liceale, sorpreso che uno scrittore così potente fosse finito nel dimenticatoio.

 

Cosa accomuna questi autori, a parte la scarsa reperibilità?
Non sono invecchiati. Un altro caso è Grazia Deledda: per me, come caratura psicologica vale Dostoevskij. Però nemo propheta in patria, sicché è conosciuta tutt’al più per ‘Canne al vento’, che forse meno la rappresenta.

 

Motivo?
Non era facilmente collocabile. Né decadentista né verista. E poi vinse il Nobel. A volte un riconoscimento mondiale procura terra bruciata in patria. Forse per gelosia. Ma chi adesso legge Bontempelli, o Deledda, al di là di qualche anacronismo lessicale li trova molto moderni.

 

A parte gli italiani, avete pubblicato Hamid Ismailov, che è uzbeko; Ananda Devi, mauriziana; Hassan Blasim, iracheno...
...ma anche Anne Carson, poetessa canadese in odore di Nobel. E quasi sconosciuta qui.

 

Marketing dell’originalità?
Le aree dell’anglofonia e francofonia europee non m’interessano, anche perché il nostro pubblico è giovane e colto, per cui spesso legge in lingua originale. Non mi affascinano i grandi centri ma le periferie, perciò adesso stiamo traducendo opere dal farsi, dal curdo e dal vietnamita. In autunno pubblicheremo un autore vivente di lingua tamil, Perumal Murugan, notissimo all’estero.

 

Perché nessuno lo ha tradotto in italiano?
Il nostro Paese non è al centro delle dinamiche internazionali. I grandi editori selezionano ciò che è già arrivato nel mondo anglofono con letture spesso esternalizzate, poi decidono cosa può funzionare. Utopia invece può conseguire obiettivi di sostenibilità economica con libri che ad altri non converrebbero.

 

Non c’è una punta di neoesotismo?
No, la prima caratteristica è il valore, se cioè a distanza di migliaia di chilometri, o di tempo, un libro riesce a parlare con franchezza della condizione umana. Mi sconvolge che fra quindici anni l’economia dell’Indonesia supererà la nostra e non sappiamo nulla della sua letteratura. O di quella mongola: possibile che un territorio così vasto non ne produca? Per non parlare della Cina: rispetto a vent’anni fa è molto più visibile nelle nostre librerie, ma è ancora sottorappresentata. Gli autori asiatici conosciuti sono i più europeizzati, mentre credo che il cuore letterario di cinesi, giapponesi, vietnamiti e sudcoreani resti inesplorato.

 

Le arrivano nuove proposte italiane?
Sei o settecento testi in questi due anni. Alcuni validi, ma nessuno che mi abbia sconvolto. Qualcuno l’ho letto tutto, la maggior parte l’ho scartata dopo qualche pagina.

 

Lei è anche poeta.
La mia scrittura artistica è un lavoro marginale. Già si pubblica troppo. Un autore dovrebbe essere il primo editor di se stesso e ridurre la sua produzione a un decimo di quel che scrive.

 

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