Carlo Laurenti in una sua foto degli anni settanta in Cina

FACCE DISPARI

Carlo Laurenti, taoista: la sfida della Cina è non diventare il nostro doppio

Francesco Palmieri

Rifiuta l'etichetta di sinologo, perché è molto di più. "Un desiderio di libertà univa campeggi, semiotica e panda", così è iniziato l'interesse dello studioso per la cultura cinese. Intervista 

Lontano in corpo e spirito dall’accademia, Carlo Laurenti rifiuta l’etichetta di sinologo non già perché non lo sia, quanto perché è anche varie altre cose: traduttore di Confucio, Zhuangzi e Lu Xun ma pure di Cioran per Adelphi, studioso di Leopardi, documentarista, bibliomane ed eccetera (qualcosa omettiamo). Romano, 68 anni, da parecchi indizi sospettabile di taoismo, Laurenti è un poliedrico, ossia il più astruso tipo d’uomo in un frangente storico proteso a poliamori e policognomi, polisemie e poliarchie ma monoscopico nella definizione delle competenze da incidere su targhe, codici matricolari, account e biglietti da visita.

 

Come nasce il suo interesse per la Cina?

Me lo chiesi la prima notte che dormii a Pechino nel settembre 1976, una settimana dopo la morte di Mao. Lo spiegai con la curiosità per l’esplorazione di luoghi lontani che mi avevano trasmesso i miei genitori campeggiatori. Col desiderio di capire come applicare le teorie semiotiche a quella lingua. Con un panda di peluche che mi avevano regalato da piccolo. Un desiderio di libertà univa campeggi, semiotica e panda.

 

Quando cominciò a studiare il cinese?

Già al liceo, ai corsi dell’Associazione Italia-Cina. Eravamo in due, io e Marco Müller. Volammo a Londra per comprare i vocabolari di cinese. Poi mi iscrissi all’università col desiderio di andare in Cina con una borsa di studio: i posti erano 12, per due anni mi classificai tredicesimo. Un giorno arriva un telegramma che mi comunica la partenza per la settimana dopo: uno studente aveva rinunciato. Avevo 22 anni, m’ero sposato ma parevo un quindicenne. Mi feci crescere i baffi per sembrare più grande. Avevo già coniato per me stesso un proverbio: “Se vuoi andare in porta fatti pallone, ogni calcio ti ci butterà”. Il primo calcio era arrivato.

 

Carlo Laurenti in un'immagine recente

 

Sta confessando il suo taoismo.

Studiai a Parigi con Kristofer Schipper, che fu ordinato maestro taoista e di cui ho tradotto ‘La religione della Cina’. Ma affermare di essere taoista sarebbe un controsenso…

 

… per un taoista sì. Ma cosa c’è di taoista nella Cina di oggi?

Nei decenni di isolamento in cui il mondo l’ha tenuta nel secolo scorso, la Cina si è caricata come un’immensa fionda. Ce la siamo dati in faccia da soli. Appena entrata nella Wto ha fatto sfracelli.

 

Quella che accolse lei stava appena uscendo dalla Rivoluzione culturale.

Fummo la prima generazione che riuscì ad avere amici cinesi. Era la realizzazione di un sogno. Ci rimasi due anni con un’amica: nel ’78 eravamo i primi italiani residenti a Shanghai dopo la guerra, assieme ai professori Giorgio Mantici e Alessandra Lavagnino. A Pechino, l’anno avanti, avevo conosciuto Edoarda Masi.

 

Saltiamo alla Cina di Xi Jinping. Quella della fionda in faccia.

Non voglio fare il “complessificatore”, ma in Occidente non è facile comprendere certe strategie di gestione del consenso. Bisognerebbe conoscere il gioco degli scacchi cinesi, il weiqi, in cui i pezzi non sono pensati gerarchicamente. Noi abbiamo il re, la regina, il pedone… Nel weiqi la gerarchia di una pedina dipende da come stai giocando. I cinesi costruiscono gerarchie, ma non pensano in modo gerarchico.

 

L’espansionismo cinese è irrefrenabile?

L’economia cinese non tende a distruggere l’avversario, ma a inglobarlo. Non mira a un deserto chiamato pace. E il grande stratega, come affermava Sunzi, ottiene un paese senza uccidere nessuno.

 

Però a Pechino mostrano sempre più i muscoli rispetto a Taiwan.

Se saranno abili prima o poi se la prenderanno, ma non in modo cruento. Una invasione militare sarebbe un suicidio morale. L’approccio confuciano, ancora valido, colloca i militari a un grado inferiore. Non molti notano comunque che la Cina continentale è stata già taiwanizzata. E che Taiwan assapora da poco il modello democratico. Un tempo la sua dittatura era più o meno simmetrica a quella di Pechino.

 

Qual è la sfida maggiore per la Cina?

Quella di non diventare il nostro doppio mostruoso. In Cina le cose si sono sempre fatte perché riuscivano a passare tra le maglie, ora queste più che ristrette si sono moltiplicate, ma l’intellighenzia continuerà a essere drenata e utilizzata. Il problema è la globalizzazione: il nostro primo ambasciatore a Pechino, Marco Francisci, perfetto confuciano e perfetto taoista, lo aveva già capito e ammoniva che accelerare la globalizzazione sarebbe stato un errore madornale. Anche la pandemia di Covid-19 ne è un risultato. Questo capitalismo imitativo non può andare più in là. Per esempio, il potere ora ha capito che per mantenere il consenso deve davvero far qualcosa sul clima. E ci riuscirà. Ricordo quando fu decisa la bonifica del lago occidentale a Hangzhou, una ventina d’anni fa: in tre mesi i pesci vi tornarono a nuotare.

 

Il soft power cinese sta diventando meno soft e più aggressivo. Perché?

C’è una reazione alla crescente sinofobia generale. Ma anche scarsa lungimiranza, perché si muove su un progetto troppo centralizzato. Non basta premere sulle università con gli Istituti Confucio.

 

Cosa ha perduto la Cina in questa corsa?

Il concetto di circolarità del tempo si è affievolito perché ha preso il sopravvento un tempo lineare e accelerato. La Cina deve correre non tanto per competere, quanto per mantenere sé stessa al livello delle cose. È come se fosse preda di un movimento tellurico continuo.

 

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