(foto Ansa)

sù il sipario

Sale dal vivo piene, e purtroppo schermi vuoti. Ecco la rivincita del teatro

Marianna Rizzini

Tutto quello che è “live” (non solo recitato) attira, perché? Piccolo viaggio alla scoperta di un fenomeno post-pandemico. Parlano direttori artistici, attori, autori

Il sipario, il silenzio, le poltrone di velluto, il buio, la torcia, le maschere, gli applausi, il ricordo di quello che diceva un noto attore ai bambini che andavano a vedere le sue favole recitate, tanti anni fa: anche se non vi è piaciuto lo spettacolo, un piccolo applauso fatelo, un applauso di rispetto per l’irripetibile che va in scena ogni sera. Se invece vi è piaciuto, applaudite forte, e non uscite dalla sala in fretta solo perché così arrivate primi all’ingresso, perché l’irripetibile che va in scena ogni sera si misura così.

Lo sapevano anche gli spettatori che al Teatro Valle, a fine anni Settanta, si ritrovavano in scena uno spaventevole Carmelo Bene, diverso ogni sera, con diversa reazione nel pubblico esigente. Poi, anni di oblio intermittente, forse apparente; anni di piccola ripresa, di sale dal vivo piene a metà, di manie dell’“off” e di rinascita della tradizione, con pacchetti di abbonamenti scontati per invogliare o destinazione dei teatri ad altri eventi pur di riempirlo. E invece. Invece oggi al Teatro Franco Parenti di Milano non sanno più dove mettere le persone, e al Teatro Argentina di Roma si sono viste file chilometriche per “M il figlio del secolo”, tratto dal libro di Antonio Scurati. E all’Auditorium, sempre nella capitale, anche ciò che teatro non è attira pubblico quanto più è forte la dimensione dal vivo: alla Festa del Cinema, nell’autunno scorso, la sala adibita alle lezioni-interviste con i registi era sempre sold-out, mentre in quelle con i film un posto lo si trovava.

Poi c’è il tassista che dice alla passeggera milanese, diretta per lavoro a teatro: senta signora, io ora sinceramente per andare al cinema a vedere un film che posso vedere su Netflix spendo 25 euro tra me e mia moglie, quando per l’abbonamento Netflix me ne bastano 8. Ma se c’è uno spettacolo a teatro spendo volentieri anche di più, è una cosa viva, che non si ripete. Ed è chiaro che i cinefili, compreso chi scrive, restano perplessi e dispiaciuti, perché la sala è la sala, la magia del grande schermo non è magia sul piccolo, ma il punto non è quello. Il punto è che qualcosa è cambiato, e non si sa se è dovuto soltanto alla pandemia o se era un processo in nuce che il post-Covid sta disvelando: tutto quello che è dal vivo e crea fidelizzazione nel pubblico attira. Non solo: se nel 2020, primo anno di pandemia, il teatro, come da studi Istat, era tra le forme di partecipazione culturale che subivano il danno maggiore rispetto all’anno precedente (circa il 20,9 per cento), oggi, dicono i dati Agis, il cinema soffre di un calo di presenze che impressiona se paragonato al 2019: fino al 3 aprile, circa 10mila e settecento contro le 28mila dello stesso periodo di tre anni fa. E se nell’anno 2020, prima e dopo il lockdown, il calo di presenze riguardava sia il cinema sia il teatro (dati Istat-Siae), la ripresa di fine 2021-inizio 2022, pur non ancora rilevabile dagli studi di settore, è percepibile a livello empirico e nelle parole dei protagonisti. E già nel giugno 2020 un gruppo di artisti, tecnici e maestranze, in pieno shock da pandemia, precorreva i tempi del boom attuale di spettacolo dal vivo, con l’evento “Grido per un nuovo rinascimento”, andato in scena al Teatro 8 degli Studios di Cinecittà e poi diventato un documentario, per la direzione di Elena Sofia Ricci, Stefano Mainetti ed Elisa Barucchieri, dando voce ai lavoratori dello spettacolo nel momento esatto della loro reazione all’emergenza Covid-19: il corpo mostrava la fatica, le “professioni” sfilavano plasticamente davanti al pubblico, un lavoratore per ogni lavoro, e dal corpo passava la speranza che il trauma si trasformasse in risveglio. 

Due anni dopo, a Milano, Teatro Franco Parenti, nel periodo gennaio-marzo, guardando ai dati per diversi tipi di rappresentazioni, da “Mrs. Fairytale” a “Zio Vanja” con Carlo Cecchi, passando per “Così è (o mi pare)” con Elio Germano, si materializza un piccolo boom, con più di 30.356 mila spettatori per 158 repliche. La direttrice artistica Andrée Ruth Shammah riflette sulla metamorfosi del concetto di sala (cosa che spiegherebbe in parte anche la contemporanea non-ripresa del comparto cinematografico): “Lo sforzo, nel post-pandemia soprattutto, è stato quello di accompagnare la sala teatrale verso una metamorfosi in luogo di accoglienza. La sala cinematografica invece, in molti casi, è rimasta uguale a se stessa. O forse molti cinema non hanno dedicato o potuto dedicare attenzione al concetto di sala come luogo di interazione con il pubblico. Non a caso le eccezioni, come il cinema Anteo, dove questa dimensione dell’accoglienza è presente, sono sopravvissute e vivono ora un buon periodo. Credo la chiave sia nell’intercettare il bisogno di socialità quando si gestisce una sala, che sia teatrale o cinematografica, perché lo spettatore si senta parte di una comunità. E, visti i dati incoraggianti, spero che questa tendenza proceda di pari passo con la scomparsa della paura generata dal virus, ancora in parte presente”.

Se il cinema sta scontando la competizione serrata con le piattaforme (dati Swg parlano di un raddoppiamento di spesa per le tv a pagamento), lo spettacolo dal vivo prende forza come contraltare dell’overdose da rete nei tempi pandemici. Al Piccolo Teatro di Milano-Teatro d’Europa, nei primi mesi del 2022, “De infinito universo”, l’opera prima di Filippo Ferraresi, ha registrato 2.986 presenze, pur nel quadro di un allestimento con tribuna frontale e riduzione di posti. E “M il figlio del secolo”, con Tommaso Ragno, diretto da Massimo Popolizio, al Piccolo ha fatto registrare il tutto esaurito (come all’Argentina di Roma), con 17.582 presenze. Dice il direttore del Piccolo Claudio Longhi: “L’emergenza sanitaria ha radicalmente messo in discussione l’esistenza stessa delle pratiche performative, a partire dalla matrice generativa dell’esperienza scenica, ossia la compresenza di corpi e la condivisione del respiro. Un simile cambio di paradigma ha, dunque, sconvolto alle fondamenta il mondo teatrale, portando a un ripensamento di alcune categorie cardinali come la nozione di comunità e l’articolazione della dialettica dentro/fuori. In tal senso, premesso che è impossibile generalizzare, piuttosto che ragionare in termini di miglioramento o peggioramento, parlerei di una sensazione di forte spaesamento di fronte alla quale l’impegno fondamentale è quello di interrogarsi costantemente sulle strade da intraprendere per rispondere alla crisi in atto”. Bisogna lavorare su “più piani paralleli”, dice Longhi, per superare le difficoltà “del clima di assoluta incertezza caratteristico dei tempi che stiamo vivendo”. E quindi, “vagliare soluzioni flessibili e alternative: non è un caso che si guardi, con sempre maggiore interesse, a orizzonti temporali non così consueti per l’attività teatrale (ad esempio, l’intervallo giugno-settembre) e a spazi di rappresentazione non canonici.

Tutto ciò si accompagna a un’altra evidente trasformazione: parte del pubblico ha mutato le proprie abitudini fruitive, acquistando, ad esempio, i biglietti solo all’ultimo momento; in questo modo, le ordinarie consuetudini di pianificazione si ritrovano a essere disattese. Inoltre, nelle sale, da un lato si registra una flessione della presenza degli abbonati e, dall’altro, sembrano affacciarsi spettatori nuovi, con nuovi gusti e nuove aspettative”. Spostandosi al Sud, il direttore del Teatro di Napoli Roberto Andò riflette sulla diversità di destini che ha investito cinema e teatro dopo la pandemia, con il cinema penalizzato dalla “frequentazione” casalinga via piattaforma: “Penso al saggio ‘L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica’ di Walter Benjamin”, dice Andò: “E in questo caso la riproducibilità tecnica ha fatto sì che ora lo spettatore pensi al cinema come a un momento di fruizione da casa. Vediamo se si riuscirà a invertire la tendenza, magari creando attorno al film occasioni di non ripetibilità dell’evento – lo fanno già a Milano l’Anteo e a Roma la Sala Troisi. Quanto al teatro, è stata una gioia vedere spettacoli sold-out dopo la pandemia, e notare l’avvicendamento dei giovani tra il pubblico di affezionati”. 

 

Ma come vive l’attore questo momento di trasformazione nell’esperienza stessa del farsi spettatore? Lo chiediamo a Tommaso Ragno, protagonista di “M”: “C’è un bisogno primario di stare in presenza, dopo l’esperienza dei lockdown: bisogno della dimensione orale data dallo spettacolo in presenza; bisogno della dimensione visiva davanti a un quadro; bisogno della dimensione collettiva, dal teatro alla chiesa. E’ chiaro che non siamo solo fisiologia, ma è come fossimo stati ridotti, in questi due anni, a mera fisiologia e biologia in balia di un virus. L’uomo è l’unico animale che ha la capacità di rappresentare. E forse, dopo due anni passati a postare sui social, la necessità di contatto diretto è fortissima: del pubblico con noi, di noi con il pubblico, del corpo-a corpo metaforico che è mancato a tanti livelli, in questo tempo, specie quando si usciva nel nulla, nelle città deserte, come terrorizzati, come se qualcuno potesse aggredirci all’improvviso, con una sorta di effetto ‘Shining’”.

Per l’attore, dice Ragno, lo streaming non è mai stato sostitutivo dell’esperienza: “Il teatro è quel luogo dove tu guardi il mondo e il mondo ti guarda, e in quella contemporaneità del guardare e dell’essere guardati c’è tutto il senso. Tutte le sere io ho la fortuna di essere in scena, senza estensioni meccanico-tecnologiche, in una realtà profondamente umana. Non si parla di una riunione assembleare, con aspetti avvocatizi. Il teatro risponde al bisogno di percepire ed essere percepiti. Per questo gli applausi sono commoventi, e per questo molti ora vanno a teatro, forse avvertendo che vale la pena uscire di casa per vivere quell’esperienza. Un’esperienza che non è posticcia, e non è intrattenimento via app. E mi dico, tutte le sere: dobbiamo dare a questo pubblico qualcosa di buono, così come il pubblico può esercitare il suo diritto a non gradire quello che gli diano. E’ come con i libri: ci sono quelli che restano sullo scaffale per sempre. Beh, vuol dire che non ci siamo incontrati”.

 

Dal Teatro Parioli da poco riaperto, il direttore artistico Piero Maccarinelli ragiona sulla tipologia delle sale che ora si riempiono:  “Sono quelle dalla tipologia identitaria molto forte, quelle che il pubblico considera ‘case’. E’ importante che la sala abbia questa caratteristica, oggi, per riconquistare la fiducia dissolta durante la pandemia. Noto intanto che è cambiato il pubblico: è più selettivo, sceglie il singolo prodotto, e infatti sono crollati gli abbonamenti. Dovremo tenerne conto anche in futuro: non c’è più uno zoccolo duro, sorta di ‘gioiello di famiglia’ per ogni teatro. Noto poi che soffre di più il prodotto medio, quello che non è immediatamente identificabile dall’enclave dei Dams-dipendenti o al contrario dal pubblico borghese tradizionale. Funzionano invece alcuni esperimenti: il duello a teatro tra  scrittori, per esempio, ha avuto molto successo”. 

Escono intanto per così dire dallo schermo i siti dei giornali (grande successo, tempo fa, per la rivista “Internazionale” dal vivo), ed è sempre più affollato il Festival del giornalismo di Perugia (in questi giorni). Escono dal computer o dal cellulare anche i podcast, durante iestival di podcast letti “live” dagli autori in teatro. Dice l’autore radiofonico Michele De Mieri, con Marino Sinibaldi e Rosa Polacco curatore del festival letterario “Libri come” (nel mese scorso a Roma): “In tutti gli eventi collaterali della rassegna abbiamo avuto un’affluenza incredibile di persone, come se la fruizione culturale richiedesse sempre di più la presenza del corpo. Non so se è la fine di un mondo, e lo dico a malincuore, da appassionato di cinema, cioè non so se sia davvero in atto la trasformazione che ha vissuto anche la carta stampata in favore del digitale, o se è anche una questione contingente post-pandemia, legata alla multi-programmazione non ordinata di molte sale cinematografiche”. Intanto succede che anche gli attori escano letteralmente dallo schermo, come ne “La Rosa purpurea del Cairo”, film cult di Woody Allen, per farsi carne e ossa in teatro: ecco infatti che “Mine vaganti” di Ferzan Ozpetek si clona in spettacolo dal vivo, per la regia dello stesso Ozpetek, con grande andirivieni di spettatori.

Come trasporto i sentimenti, i momenti malinconici, le risate sul palcoscenico?”, si era chiesto Ozpetek prima di partire con l’avventura. L’attrice Iaia Forte, tra i protagonisti dello spettacolo, da cinefila si è accorta di un cambiamento anche personale: “Ora è il singolo film che mi chiama o non mi chiama in sala, mentre prima della pandemia avevo un rapporto regolare con la sala. Vedevo tutto in sala. Il passaggio alle piattaforme è avvenuto, rispetto ad alcuni prodotti, anche per me. E’ come se la mia presenza al cinema fosse giustificata dal fatto di vedere un film che per me ha la f maiuscola. Il resto lo vedo a casa. Quanto al teatro, penso che il rito collettivo dell’essere seduti al buio, con altre persone, a vedere qualcosa di non ripetibile, sia uno degli ultimi baluardi di fronte al dilagare dell’iper-virtuale. Dovremmo forse interrogarci proprio sul mutamento antropologico in atto, quello che da un lato porta il cinema sulle piattaforme, almeno per i film di pura evasione, e dall’altro indica l’importanza della presenza viva del corpo come antidoto a un indistinto virtuale”. 

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.