facce dispari

Anna Pavignano, il mio viaggio con Massimo Troisi

Francesco Palmieri

Con lui scrisse le sceneggiature dei suoi film. "Non è un ricordo, è una presenza. Il tempo a volte si dilata, altre s’accorcia". Per dieci anni fu la sua compagna, ma anche dopo restò suo riferimento di vita e di lavoro. Un amico che non è mai invecchiato

Priva di enfasi o minimalismo, peccati che insidiano chi abbia cose da raccontare, Anna Pavignano è una nitida conversatrice dal garbo torinese. Tanti sanno e altrettanti non ricordano che scrisse assieme a Massimo Troisi le sceneggiature dei suoi film, per cui un po’ di lei c’è in Massimo e un po’ di lui in lei che per dieci anni fu la sua compagna, ma anche dopo restò suo riferimento di vita e di lavoro. Indiscutibile come Totò, ma richiamato presto a un’altra vita, Troisi più che morto pare un amico che non è invecchiato.

 

Quante volte le hanno chiesto come lo ricorda?

Massimo non è un ricordo, è una presenza. Il tempo a volte si dilata, altre s’accorcia mentre passano gli anni. Lo conobbi a fine ’77, quando venne a Torino per il programma tv Non stop. Avevo vent’anni, fu la mia prima storia importante. Anche quando il rapporto cambiò, rimase il legame. Durò finché lui ci fu e ancora sono felice di mantenerne viva la presenza.

 

Scrivendo il primo film, ‘Ricomincio da tre’, pensavate a un successo duraturo?

Credo sia rimasto, come gli altri film, perché trattava temi sempre irrisolti, quel senso un po’ più alto che nei rapporti sentimentali segue alla prima emozione.

 

Qual era il vostro metodo di scrittura?

Già da ‘Ricomincio da tre’ prendemmo casa fuori per essere lontani dalle distrazioni. Anche se non eravamo tipi mondani, l’idea era di isolarci e pensare solo alla sceneggiatura. Affittammo un grande appartamento a Nemi con Lello Arena e Gaetano Daniele e nella casa accanto c’era Enzo De Caro. Nelle ore in cui scrivevamo, io e Massimo ci chiudevamo nella mansardina. A ripensarci, quelle atmosfere mi sembrano al contempo di ieri e rarefatte, come se le avesse vissute un’altra.

 

Come nascevano le battute dei film?

Spesso da situazioni reali, che Massimo appuntava sui foglietti. Per esempio quella famosa sul nome del bambino, Massimiliano o Ugo, a conclusione di ‘Ricomincio da tre’ spuntò da una vacanza in Sardegna: sulla spiaggia c’era un ragazzino che andava e veniva dall’acqua e la mamma chiamava inutilmente: ‘Massimiliano!’ Allora a Massimo venne spontaneo osservare che era indisciplinato per colpa del nome lungo. O la battuta ne ‘Le vie del Signore sono finite’, che sono milioni a scrivere e uno solo a leggere, ci derivò dallo sconcerto dei giri in libreria, quando ti rendi conto che il desiderio di conoscenza è frustrato dal tempo disponibile. Certe volte facevo un’osservazione e Massimo la rigirava in forma divertente. O attingeva al patrimonio di ironia della sua famiglia: quando in ‘Scusate il ritardo’ minacciano la bambina di “farla mangiare” dallo zio, per esempio, a recitare era una sua vera nipote, Valeria. Per me, che venivo da una famiglia torinese praticamente in estinzione, trovarmi immersa nel calore dei Troisi a San Giorgio a Cremano mi fece conoscere il carattere del Sud in anni in cui ci volevano nove ore di treno da Torino a Napoli.

 

Cosa le fece scoprire di Napoli?

Poco. L’ho conosciuta meglio quando ci sono tornata da sola. A Massimo non piaceva andare in giro.

 

In quale dei suoi film lo trova più simile a com’era nella vita?

In tutti, anche se il ragazzo del ‘Postino’ gli somigliava molto. Ma forse quello dove è stato più in sintonia con se stesso fu ‘Pensavo fosse amore… invece era un calesse’, perché mentre negli altri film tendeva a mascherarsi dietro la timidezza e l’ironia, in questo ebbe meno paura di mostrarsi. Era maturato anche professionalmente, credeva di più nella sua capacità di regista.

 

Come lo vede adesso?

Nei sogni è un personaggio costante come i miei genitori. Quando arriva è come se rivivessi la nostra quotidianità ma c’è l’aspetto della perdita, così tento di comportarmi in maniera più accogliente possibile per evitare che se ne vada di nuovo.

 

Lei ha continuato a scrivere per il cinema e per la narrativa, dedicando anche una biografia romanzata a Troisi, mentre il suo ultimo romanzo tratta di maternità: ‘La prima figlia’, edito da e/o, è la scelta di una donna di fronte al rischio di generare un bambino down.

Sono mamma, e anche se il discorso sull’handicap non mi riguarda direttamente ho voluto esplorare il desiderio di maternità quando si scontra con una realtà inadatta a far sì che un bambino possa crescere felice. È un libro che s’interroga senza pretesa di risolverla su una questione emotiva e filosofica.

Predilige la scrittura per il cinema o letteraria?

Nella narrativa sei tu che decidi tutto, mentre a cinema lo sceneggiatore deve tenere conto di tanti altri ruoli. Il gioco delle parole è importantissimo per entrambi ma diverso. La possibilità della letteratura di descrivere un’emozione solo grazie alle parole giuste mi affascina molto.

I cinematografi sono sempre più vuoti. Crede sia una crisi definitiva?

Di crisi si parlava da prima che cominciassi a scrivere sceneggiature: allora s’incolpava la tv, oggi le piattaforme. Credo sia il tipo di vita che facciamo a essere cambiato, ma quando vado a cinema mi ricordo quant’è bello il fascino di una sala. Sarà difficile ritrovarci la folla, ma bisogna tutelarne l’esistenza.

Ha rimpianti?

Di non essere andata alla foto di gruppo al termine delle lavorazioni del ‘Postino’. Telefonai a Massimo: ‘Non posso venire, ci vediamo la settimana prossima’. Che non ci fu.

 

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