Soldato bosniaco a Sarajevo, anni 90 (Ansa) 

il libro

La guerra e l'oblio nel monologo interiore di "Zona" di Mathias Énard

Antonio Gurrado

Torna in libreria un romanzo-monstre, un flusso in cui bisogna arrivare a metà perché il protagonista si sveli come il "boia di Bosnia", criminale franco-croato della guerra nei Balcani. Un libro per riflettere su come la guerra ha sempre monopolizzato la storia umana

"Zona" di Mathias Énard viene riproposto da e/o una decina d’anni dopo la prima traduzione italiana, uscita per Rizzoli nel 2011 mentre l’originale francese data al 2008; e forse tempo c’è voluto per meditare e comprendere questo romanzo-monstre. E’ il monologo interiore di oltre quattrocento pagine, senza capoversi ma suddiviso in capitoli, di un misterioso il cui nome viene rivelato solo a pagina 33, con l’avvertenza che è fasullo, e quello vero a pagina 154 (ma il cognome viene aggiunto altre ottanta pagine dopo). Bisogna invece attendere metà libro perché emerga trattarsi del “boia di Bosnia”, criminale franco-croato della scorsa guerra europea, quella nei Balcani.

Il tempismo della ripubblicazione è perfetto non solo perché i capolavori migliorano invecchiando ma anche perché, pochi giorni dopo, la guerra in Europa è scoppiata di nuovo. E’ impossibile rileggere questa mistura di atrocità belliche, attività spionistiche, curiosità storico-letterarie dall’antichità ai giorni nostri sull’intera area del Mediterraneo – tutte accatastate nel cervello di un alcolista un po’ depresso, alla Malcolm Lowry – senza riflettere su cosa penseremo della guerra odierna dopo che il tempo si sarà frapposto.

 

Nelle cinque ore su un Pendolino dalla Stazione Centrale di Milano, “questo tempio di Akhenaton per locomotive”, fino a Termini, “fine del mondo” e porta di una capitale “putrescente sfavillante e cadaverica”, la voce narrante pensa al ritmo incessante del convoglio. Descrive dal finestrino i neon bianchi della stazione di Casalpusterlengo, le luci intermittenti della zona industriale di Piacenza, Parma che “fugge via nella notte con la sua nobiltà napoleonica”, i “fantasmi inquietanti” delle fattorie e delle fabbriche padane, Reggio “dolce e bella, luminosa”, Modena “sintesi molto italiana” di insaccati e auto di lusso, la “disperazione nera della notte bolognese”. Sogna un orario ferroviario che contenga tutti i treni del mondo, consentendo tutti i viaggi possibili a patto di pazientare per intricatissime coincidenze. Denota “nelle ferrovie un’ostinazione simile a quella della vita”.

Incessante, impietoso e tranciante, il treno avanza sui binari allo stesso modo della storia che macina violenze con indifferenza. In questo la prospettiva di un criminale di guerra può essere utile a ricalibrare le nostre posizioni secondo un criterio più oggettivo. “I massacri altrui sono sempre più ingombranti, la memoria sempre selettiva e la storia sempre ufficiale”, scrive Énard. E poi ancora: “Le ragioni per uccidere sono tutte buone in guerra”, “la guerra è uno sport come un altro alla fine bisogna schierarsi essere una vittima o un carnefice”, “gli uomini sono deboli, vogliono combattere cacciare scopare bere cantare ogni tanto e giocare a calcio”. Quanto alla libertà per cui si combatte, non è bella come quella di Delacroix, “non appariva mai davanti ai carri armati con il seno all’aria: quel che vedevamo arrivare erano profughi laceri, sgomenti, desolati e lacrimosi”.

 

Oggi incorriamo nella tentazione di esorcizzare la guerra o equiparandola alla follia (disquisendo sulla sanità mentale di Putin) o riducendola a stato eccezionale, al punto da voler dimenticare che ha monopolizzato la storia umana e che si combatteva in quasi tutti i continenti già prima del 24 febbraio. A un certo punto la voce narrante di “Zona” ricorda che, vedendo studenti che ridacchiavano alla Risiera di San Sabba a Trieste, aveva pensato che la sofferenza delle vittime perde di senso man mano che passa il tempo: “Come oggi i monumenti ai caduti della Prima guerra mondiale non commuovono più nessuno, così la colonna di Maratona non stringe più il petto di alcun turista, niente più donne in lacrime alle Termopili davanti all’epitaffio di Simonide di Ceo”. Così nella nostra mente è sempre più sbiadito il ricordo dei Balcani, rinfrescato appena da questo libro strabordante e disperato; e fra non troppi anni avremo dimenticato sia l’Ucraina sia la promessa di non dimenticarcene mai.

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