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L'Antartide nera di Shackleton 

Francesca d'Aloja

Si tenta l’ennesimo recupero dell’Endurance, la nave inghiottita dai ghiacci nel 1915. Il capo della missione incarna l’istinto dell’uomo esploratore e la lotta per la sopravvivenza

Il 5 febbraio scorso la nave sudafricana Agulhas II, chiglia rosso scarlatto, 134 metri di lunghezza e 22 di larghezza, salpava dal porto di Cape Town per dare inizio a una delle spedizioni più appassionanti di questi tempi bui e immobili. Dotata di tecnologie all’avanguardia ed equipaggiata di due elicotteri, radar, sonar e droni sottomarini, la Agulhas II è considerata la nave rompighiaccio più grande e moderna al mondo, in grado di sbriciolare lastre spesse un metro, requisito fondamentale per la buona riuscita (si spera) dell’impresa. Obiettivo: individuare il relitto di una delle imbarcazioni più mitiche e sfortunate della Marina Inglese: L’Endurance di Sir Ernest Shackleton, inghiottita dal Mare di Weddell il 21 novembre 1915

 

Mi è d’obbligo una premessa: se c’è un Dio in cui credo ciecamente, quello è Ernest Shackleton, The Boss. Non esiste al mondo persona che io stimi e ammiri di più. E dunque, senza alcuna polemica, ammetto che mentre mezza Italia (o forse di più…?) il 5 febbraio stava incollata alla tv per la finale del Festival di Sanremo, io mi concentravo su un altro schermo (il mio computer), per seguire la diretta streaming dell’evento trasmesso dal canale History Hit, sbavando d’invidia per Dan Snow, imbarcato sulla nave per documentare la spedizione (con quel cognome non poteva che essere il favorito).  Confesso di aver inviato numerose mail all’indirizzo del Falkland Maritime Heritage Trust, l’associazione britannica promotrice dell’impresa (il finanziatore, anonimo, ha donato dieci milioni di dollari), candidandomi presuntuosamente come possibile reporter dell’evento. Il mio sogno di far parte dei 65 membri della spedizione (archeologi marini, ingegneri, tecnici, scienziati e medici) e i 45 dell’equipaggio, compresa la troupe di documentaristi che filmeranno l’eventuale avvistamento del relitto, non è stato esaudito… 
 

Il capo della spedizione, Mensun Bound (altro cognome profetico), soprannominato No Bound (senza limiti), è il personaggio principale, e se vogliamo il perfetto erede di quella stirpe di intrepidi esploratori vissuti in un’epoca tramontata. Sessantotto anni, da quaranta Bound scandaglia gli oceani in cerca di relitti. A lui si deve il recupero di una nave che molto prima della Costa Concordia si inabissò all’Isola del Giglio: un’imbarcazione etrusca risalente al 600 a.C. carica di metalli preziosi, ceramiche, anfore e flauti in legno. L’Agamemnon di Lord Nelson, che combatté nella battaglia navale di Trafalgar e il relitto Dattilo del IV secolo a.C, naufragato presso le Isole Eolie, hanno anch’essi rivisto la luce grazie all’archeologo marino Mensun Bound. Ma il recupero dell’Endurance è il suo chiodo fisso. Ci aveva già provato nel 2019 ma dovette rinunciare per le avverse condizioni climatiche che causarono la perdita del robot subacqueo, strumento indispensabile per l’esplorazione del fondale ghiacciato. Essendo nato e cresciuto nelle Falkland, non lontano dalla Georgia del Sud, l’isola dove tutto ebbe inizio e tutto finì (da lì cominciò il viaggio dell’Endurance verso il Mare di Weddel, lì Shackleton tornò dopo due anni infernali trascorsi sul ghiaccio, e lì riposano le sue spoglie), Bound è cresciuto con il mito dell’esploratore britannico, e da lui ha imparato che il fallimento non è mai una buona ragione per rinunciare. E così, ricomposta la squadra di ricercatori (fra loro Lucy Coulter, membro del World Etreme Medecine Faculty, specializzata nel soccorso in località remote e Stefanie Arndt, glaciologa – che lavori meravigliosi esistono al mondo!), e potenziato l’equipaggiamento tecnico, Bound ci riprova. Secondo il Trattato Antartico (stipulato nel 1959 per tutelare il continente bianco affinché sia terra di scienza e pace) l’Endurance, dichiarato bene storico e monumentale, se individuato potrà essere filmato ma dovrà restare al suo posto.

 

Operazione tutt’altro che semplice, i sofisticati veicoli predisposti per le riprese subacquee dovranno inabissarsi fino a tremila metri di profondità per raggiungere il fondale dove giace la nave. Il relitto, che si suppone in buono stato di conservazione grazie al freddo e all’assenza di parassiti marini, è stato localizzato grazie al ritrovamento del diario di bordo del capitano Frank Worsley, altro grande protagonista dell’incredibile avventura compiuta più di un secolo fa. 


Mi rendo conto, a questo punto del racconto, di aver considerato assodata la conoscenza di fatti che io stessa ignoravo fino a pochi anni fa. Da allora non mi capacito di quanto poco sia nota la vicenda che vide Shackleton e i ventisette uomini del suo equipaggio protagonisti della più grande impresa di sopravvivenza del XX secolo (e forse di tutti i tempi), e allora urge ricordare cosa accadde.

 

Fotografia di Sir Ernest Shackleton da Wikimedia 

 Nel 1914, in un’epoca in cui il mondo era ancora in parte sconosciuto, l’esploratore britannico Ernest Shackleton si mise in testa di attraversare a piedi il continente antartico. Dopo aver fallito due volte la conquista del Polo Sud (la prima, nel 1901, al seguito di Robert Falcon Scott e sei anni dopo, come capo spedizione, rinunciando a poco più di 150 chilometri dal traguardo), ed essersi visto sfilare il primato dal norvegese Roald Amundsen nel 1911, decise che sarebbe stato il primo uomo ad attraversare l’Antartico a piedi. E così il 1° agosto 1914, tre giorni prima che l’Inghilterra dichiarasse guerra alla Germania, la goletta Endurance, con a bordo Shackleton, 26 uomini di equipaggio (in realtà 27, fra loro c’è un clandestino) e 70 cani da slitta, salpa dal porto di Plymouth.

 

L’obiettivo è il gelido mare di Weddel, nella zona nord orientale del continente di ghiaccio, a detta dell’esploratore “il peggior posto nel peggiore dei mari”. Da lì, una squadra di sei uomini con le slitte, sarebbe sbarcata per intraprendere una marcia di tremila chilometri fino all’altro capo dell’Antartide, nel Mare di Ross, dove la nave di supporto Aurora li avrebbe in seguito recuperati. Ma lo sbarco non avverrà mai, ad appena un giorno di navigazione dall’approdo, la goletta Endurance si fa intrappolare dai ghiacci e va alla deriva verso Nord. La radio di bordo è inutilizzabile, interrotti i contatti con il mondo, nessuno sa più dove si trovino. Gli uomini tentano invano di liberare la barca a colpi di piccone e segando il ghiaccio (si possono vedere i filmati nelle emozionanti riprese di Frank Hurley, il cineoperatore che documentò le varie fasi della spedizione). Non resta che attendere l’arrivo dell’estate, nella speranza che il disgelo possa liberarli. E’ l’inizio del calvario. Dopo aver trascorso un intero inverno (che in Antartide dura nove mesi) sulla nave prigioniera del pack, le illusioni si infrangono al suono di scricchiolii sinistri che lasciano presagire quel che accadrà di lì a poco. La pressione del ghiaccio stritola la chiglia: l’Endurance, che pare “urlare come un animale ferito”, inizia lentamente ad affondare. Si tenta l’impossibile ma è tutto inutile. “She’s going, boys”. 


Shackleton ordina di abbandonare la nave. In fretta si sbarcano i cani, le provviste, gli attrezzi necessari e soprattutto le tre scialuppe, unica speranza di salvezza. Hurley riprende la scena: nel filmato si vedono i tre alberi spezzarsi come rami secchi, e la bandiera che sventola il suo addio mentre la sagoma si inabissa nel buio. Sono soli, nel nulla, a più di mille miglia dal primo avamposto conosciuto
Questa circostanza mette in luce il carattere di Shackleton, chiamato da tutti “the Boss”, che da quel momento diventa l’uomo capace di infondere speranza e coraggio: “Giuro che vi riporterò a casa”. Secondo la testimonianza del medico di bordo “Shackleton non perse mai la calma: spiegò a tutti noi i rischi a cui andavamo incontro ma anche le possibilità di farcela, e il primo ingrediente per sopravvivere era l’ottimismo”. Ha così inizio una marcia disperata: sull’immensa piattaforma galleggiante gli uomini stremati trascinano le scialuppe e le attrezzature messe in salvo, ma è uno sforzo immane e Shackleton decide di fermarsi e allestire un campo. La sopravvivenza ora dipende dalla direzione della banchisa e dalla divina Provvidenza che deciderà se allontanarli o avvicinarli alla terraferma. Passeranno cinque mesi a meno 45 gradi, pigiati nelle tende, in sacchi a pelo di pelle di renna adagiati sul ghiaccio.

 

Soffrono di geloni, problemi intestinali, insonnia. Il cibo scarseggia, viene dato l’ordine di uccidere i cani per cibarsene. Poi, finalmente, il ghiaccio si rompe. Le scialuppe possono affrontare il mare: tre barchette di sei metri in balìa dell’oceano e del vento, senza alcuna protezione né strumentazione nautica percorreranno, a remi, trecento miglia. La rotta è stabilita dal capitano Worsley che non si concede riposo per 80 ore. Una settimana di navigazione prima di avvistare una piccola isola, il primo lembo di terra dopo 497 giorni di mare e di ghiaccio. Metà dell’equipaggio comincia a dare segni di “insanity”, squilibrio mentale. Con le poche forze rimaste gli uomini allestiscono in fretta un campo per poter riposare. Si addormentano felici, credono di avercela fatta. Ma al risveglio l’entusiasmo si spegne: dopo una breve ricognizione si rendono conto di essere sbarcati nel luogo più inospitale della terra, uno scoglio disabitato che non figura neppure sulle mappe nautiche: nessuna speranza di essere avvistati e soccorsi. Dopo pochi giorni Shackleton prende la sua decisione: insieme a cinque uomini tenterà di raggiungere l’isola di South Georgia, da dove erano partiti due anni prima: ottocentosettanta miglia di traversata nel più furente degli oceani, senza alcuna certezza di indovinare la rotta esatta.

 

E’ un’impresa suicida ma è la sola che possono tentare. “Tornerò a prendervi” promette il Boss agli uomini rimasti su Elephant Island (esiste uno scatto memorabile di quel momento: la scialuppa ha già preso il largo e gli uomini rimasti sull’isola, di spalle, le braccia sollevate verso il cielo, salutano i compagni partiti in cerca di salvezza).


Quel che è accaduto finora sembra inverosimile, ma ciò che accadrà rasenta l’incredibile. I sei uomini dovranno combattere senza sosta contro un mare in tempesta, con venti che hanno l’intensità di un uragano e raffiche che raggiungono duecento chilometri l’ora. Sono perennemente fradici, non hanno spazio sufficiente per sdraiarsi e dispongono solo di un sestante per stabilire la rotta. In quelle condizioni è impossibile consultare le carte nautiche, e chi ha la sventura di trovarsi al timone viene incessantemente schiaffeggiato da ondate gelide. Shackleton stabilisce turni di ottanta minuti, impensabile resistere oltre. La barca si ricopre di ghiaccio e gli uomini sono costretti a scrostarla a colpi d’ascia. “Ogni ondata era un nemico da combattere”. Sedici giorni, tanto ci vuole a raggiungere, miracolosamente, le coste della Georgia del Sud.

 

Dopo un attracco complicatissimo, i sei toccano terra, ma la sorte sembra accanirsi crudelmente, e ancora una volta prima li illude e poi li beffa. La stazione dei balenieri si trova dalla parte opposta dell’isola, impossibile raggiungerla via mare, la barca è ormai inservibile. Davanti a loro, un immenso ghiacciaio li separa dalla salvezza. Nessuno ha mai tentato la scalata, Shackleton, Worsley e Crean saranno i primi (gli altri tre uomini, troppo provati, restano sulla spiaggia). L’attrezzatura di cui dispongono: una stufetta da campo, una scatola di fiammiferi mezza piena, due bussole, quindici metri di fune, una piccola ascia per rompere il ghiaccio. Non hanno una tenda, non potranno fermarsi. Alle suole delle scarpe fissano delle viti della barca per agevolare l’arrampicata.


La scalata ha inizio alle tre del mattino. Trenta miglia di montagne e ghiacciai inesplorati valicati nell’arco di trentasei ore, costeggiando dirupi e crepacci profondissimi, senza mai fermarsi per non rischiare il congelamento. La loro perseveranza (“the endurance”, appunto) li premia all’alba, quando allo stremo delle forze gli appaiono le deboli luci della stazione baleniera. Al primo uomo che li vide parvero tre fantasmi. “Chi diavolo siete?”. 


“Il mio nome è Shackleton” rispose quello al centro. Nessuno poteva credere che fosse lo stesso uomo partito due anni prima.
Si rasarono la barba, tagliarono i capelli e indossarono abiti puliti dopo un lungo bagno caldo (l’incommensurabile valore di quella vasca colma di acqua bollente…). La sera stessa Worsley andò a recuperare i tre compagni rimasti dall’altra parte dell’isola mentre Shackleton prendeva accordi per tornare a Elephant Island a salvare i suoi uomini. Non c’era tempo per riposarsi. La mattina seguente era già pronto a ripartire, ma di nuovo gli dei si accaniscono. Il ghiaccio impedisce la navigazione, è necessaria una baleniera adatta a penetrare nella banchisa. Non sarà facile procurarsela. Shackleton lancia appelli al governo britannico ma c’è la guerra e le sue suppliche vengono ignorate, poi tenta con l’Uruguay e soltanto dopo quattro mesi e altrettanti tentativi falliti riesce a ottenere un rimorchiatore d’alto mare da parte del governo cileno.

 

Arrivato a poche centinaia di metri dall’isola di Elefante, 128 giorni dopo averla lasciata, Shackleton chiede di calare una scialuppa per avvicinarsi alla costa. La nebbia rende difficile l’avvistamento, ma il binocolo riesce a isolare l’immagine di un gruppo di uomini, Shackleton li vede sbracciarsi e saltellare. Con il cuore in gola li conta uno a uno. Sono ventidue. Tutti vivi.
Non è finita. Al rientro nel mondo Shackleton viene a sapere che la nave Aurora, destinata a recuperare lui e i suoi uomini una volta attraversato l’Antartide era finita alla deriva a seguito di una tempesta che ne aveva spezzato gli ormeggi. A terra erano rimasti dieci uomini, scesi per allestire un rifugio. Si erano portati poche scorte di cibo e nessun vestito di ricambio. Anche per loro la lotta per la sopravvivenza superò ogni immaginazione. Dopo quasi due anni di stenti e di gelo, Shackleton andò a salvarli. Questa volta, purtroppo, riuscì a recuperarne solo sette, tre non superarono la prova.

 

Come si può non amare quest’uomo? 
Di Shackleton ho letto e scritto molto, lo considero una sorta di spirito-guida a cui mi rivolgo per ridimensionare le difficoltà della vita e rimpolpare la mia scarsa fiducia nell’umanità. Nella sua biografia il fallimento è una costante, ma esemplare è la tenacia, the endurance, con la quale persegue i suoi obiettivi senza mai arrendersi. Gli anni che precedono l’avventura dell’Endurance sono significativi per capire la sua personalità, basterebbe leggere ciò che accadde durante la missione Nimrod, la prima delle tre spedizioni in Antartide da lui guidate, nella quale già scintilla lo spirito folle e visionario unito al profondo senso di responsabilità nei confronti dei suoi uomini per i quali è disposto a tutto (in quell’occasione rinunciò a proseguire, nonostante fosse prossimo alla meta, per non compromettere la vita dei tre compagni, stremati dopo settanta giorni di marcia). 


Ranulph Fiennes, il più famoso esploratore vivente, ha definito Shackleton “il più grande esploratore polare di tutti i tempi malgrado il fallimento di tutte le sue spedizioni”. Può affermarlo con cognizione di causa Sir Fiennes, classe 1944, che nel 1993 ha compiuto con successo l’attraversamento a piedi dell’Antartide in onore del suo predecessore. Sul corpo porta i segni delle sue conquiste: nel 2000 tentò la traversata in solitaria del Polo Nord ma un grave congelamento delle dita lo costrinse ad amputarsi le falangi con un seghetto… E’ grazie a una sua bellissima intervista sul New Yorker che ho conosciuto la storia di Shackleton. 

 

Sono imperscrutabili le ragioni che muovono questi uomini fuori dal comune a compiere le loro imprese. La gloria? Il desiderio di mettersi alla prova? La sete di conoscenza? Nel caso di Shackleton l’elemento più interessante risiede forse nell’ostinato, cocciuto rifiuto di arrendersi di fronte alle avversità e nella cieca fiducia riposta in se stesso, quel never surrender così distintivo dello spirito britannico. Mi sono spesso domandata come avrebbe affrontato questi tempi


Commovente è l’epilogo della sua vita, quando insieme ad alcuni degli uomini che parteciparono alla spedizione Endurance (gli altri, ironia della sorte, morirono al fronte dove furono richiamati subito dopo il rientro in patria…), tentò di replicare la sfortunata spedizione. Arrivato nuovamente nella Georgia del Sud, il 5 gennaio 1922, a soli quarantasette anni, fu stroncato da un infarto. Il governo britannico voleva rimpatriare la salma, ma la moglie preferì che fosse sepolto sull’isola, come lui certamente avrebbe voluto.
Ma è tempo di tornare al giorno d’oggi.

 

Graham Bawden, via Wikimedia Commons 


 Mentre scrivo, contemporaneamente sbircio gli aggiornamenti della spedizione Endurance22 postati da Dan Snow sul suo account Twitter. Da quando sono partiti seguo virtualmente la nave AgulhasII attraverso il Live Ship Tracker che mostra il percorso di avvicinamento al Mare di Weddel. Il 7 febbraio scorso un drone restituiva l’immagine della nave in navigazione mostrando un dettaglio che mi era sfuggito: sulla fiancata del secondo ponte campeggia l’enorme scritta: Dedicated to Miriam Makeba, tributo dei sudafricani alla loro leggendaria cantante, gloria nazionale. Mi fa sorridere pensare alla voce di “Mama Africa” fra gli iceberg antartici, nantsi Pata Pa… 


Il 13 febbraio la nave si trova a poche miglia dal circolo polare antartico, la meta è dunque prossima. Man mano che procede i tweet di Dan Snow si fanno sempre più entusiasti, talvolta corredati da brevi filmati che mostrano quanto sia spaventoso il mare a quelle latitudini. A commento della potenza degli elementi, che Snow osserva al riparo della superattrezzata Agulhas, il suo pensiero vola inevitabilmente a Shakleton, e mentre infuria la tempesta scrive: “14 febbraio: navighiamo tra la Georgia del Sud e le isole Sandwich: mare forza 10, raffiche di vento a 60 nodi, iceberg in avvicinamento… Non ho assolutamente, letteralmente idea di come Shackleton sia sopravvissuto in queste acque a bordo di una scialuppa senza protezione, in condizioni anche peggiori di quelle a cui ho assistito oggi!” e conclude con un definitivo: “No clue. Zero!”. 


I mezzi tecnologici oggi a disposizione degli scienziati non garantiscono il successo dell’impresa: quella zona del mondo resta tuttora una delle più impenetrabili, e la stessa Aghulas II rischia di non oltrepassare la barriera dei ghiacci. Per questa evenienza il team ha previsto l’allestimento di un campo su un lastrone di ghiaccio nella speranza che la deriva lo trascini in prossimità del sito di perlustrazione. Una volta raggiunto, con l’aiuto di una gigantesca trivella (un metro di diametro), verranno praticati dei fori attraverso i quali saranno calati i sommergibili connessi alla superficie da cavi di fibra ottica. Se anche questa volta l’operazione dovesse fallire (eventualità paradossalmente fedele al mito di Shackleton…), la spedizione sfrutterà l’occasione per condurre importanti rilievi scientifici. E intanto la nave si avvicina…


16 febbraio, tweet di Dan Snow: “Manca poco! Ci troviamo a un paio di miglia dall’ultima posizione rilevata dell’Endurance”. A commento della notizia, la fotografia di un pinguino solitario ripreso su una lastra di ghiaccio: “Un pinguino è venuto ad augurarci buona fortuna.”


17 febbraio: un Dan Snow sempre più emozionato annuncia l’arrivo sul sito del naufragio. Presto verrà calato il robot sottomarino che scandaglierà il fondale: “Today we are making history”. Per i successivi due giorni non vengono inviati aggiornamenti via web… Nella notte fra il 21 e il 22 febbraio un nuovo annuncio: l’Aghulas II, proprio come accadde all’Endurance, “is stuck in the ice”, è imprigionata nel ghiaccio. Le ricerche si interrompono e gli sforzi, ora, sono concentrati nella soluzione di un problema che malgrado i progressi tecnologici si ripresenta inesorabilmente, a riprova dell’impenetrabilità di un luogo che gli uomini si ostinano a sfidare. La data di scadenza della spedizione si avvicina. Pochi giorni ancora per trovare il relitto dell’Endurance. Giorni che trascorrerò incollata al computer, sperando che la famosa frase pronunciata da Ernest Shackleton: “What the ice gets, the ice keeps”, possa, questa volta, risultare infondata.

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