Disneyland Paris (Foto Ansa)

il timbro della realtà

La dittatura del “carino” è il segno della nostra crisi, dice il filosofo Simon May

Ginevra Leganza

Il professore King’s College di Londra, autore del libro “Carino! Il potere inquietante delle cose adorabili”, descrive un presente dove la forza di sostenere la bellezza pura è ridotta all’osso e si preferisce il tepore subdolo della carineria

Esiste una categoria umana sempre più numerosa e sempre più interessata a gattini e cagnolini da spupazzare. Interessata, se capita, persino a far bambini giusto per postarne le gote soffici su Instagram. D’accordo, troppo cinismo: sarà sovrabbondanza d’affetto e non narcisismo il sentimento che accompagna i baby-post. Eppure, secondo Simon May, professore di Filosofia al King’s College di Londra e autore di “Carino! Il potere inquietante delle cose adorabili” (Luiss University Press, 164 pp., 12 euro), questa genia in espansione si sintetizza in una parola che, è guarda caso, l’aggettivo preferito di una fata genialmente narcisa: parliamo del cute. Ogni quanto una Chiara Ferragni, dal suo account depositario dei tempi moderni, intercala un so cute  fra i suoi “super-super-wow”? E quante volte un suo sottoprodotto qualsiasi, un’influencer a caso, esclama “che carino”?

 

Tale è il numero da sfuggire il conto. Simon May vede nel carino il timbro della realtà: dalle bestiole in emoticon su WhatsApp a Donald Trump – portatore di capelli d’oro e di una caruccia bocca imbronciata – che ha spaventato e sedotto i suoi elettori. La forza del cute è proprio nella doppiezza di lusinga e di paura. Le epifanie cute sono tante, endemicamente diffuse in occidente e in Giappone e solo in apparenza banali. Di primo acchito concepiamo gli animaletti sulle tastiere degli smartphone come scaldacuori innocenti a corredo di messaggini, eppure quasi tutto ciò che è semplice ha radici di filosofia teoretica. Nel caso del carino, scrive May, troviamo appunto Martin Heidegger e l’idea dell’assenza di fondamento. Il carino si distingue dal bello per la rimozione di ogni contrasto, per la sua voglia di perdersi rispetto alle connotazioni e di smantellare ogni solido pilastro: quanto è cute elude le dicotomie, disprezza le opposizioni, non si cimenta nelle contese.

 

Nel carino stesso, infatti, non c’è maschio/femmina, buono/cattivo, bello/brutto, ma un’irresistibile mistura, un apeiron amorale, a momenti respingente, di oggetti leziosi (come sono leziosi i fiocchi e il glitter bardanti il gattone in copertina di questo libro). I protagonisti del cute, soprattutto se immaginari come Topolino o E.T., rivelano un’avversione paradossalmente aggressiva nei confronti della difficoltà (sia pure la difficoltà ripagante dell’amplesso, che fa del carino un ibrido tendenzialmente asessuale, erede dell’Ermafrodito). Il carino sfugge e rimuove tutto quanto potrebbe abbrutirlo, non vuole essere disturbato e apparentemente non disturba. Notevole il caso di Mickey Mouse, con un’evoluzione che ha seguito i tornanti della storia. Prima del 1945 trattavasi di un topastro molesto, debuttante in un cartone del ’28 con Minnie, sua ancella pervertita. Insieme andavano in giro su una nave, intenti a vessare altri animali: torturavano le mammelle delle vacche, ne usavano i denti a mo’ di xilofono, stuzzicavano i maiali… Mano a mano, con la Seconda Guerra Mondiale che deflagra, l’estetica Disney attenua gli animi e il topastro da molesto diventa melenso, da depravato si riscopre premuroso. Non solo gli Usa, ma anche il Giappone, che di bombe atomiche perisce, si rifugia in un’estetica morbida. Il mondo tenta di cancellare la violenza e lo spirito nipponico passa in un batter d’occhio dal Samurai alla gattina Hello Kitty. 

 

Tutti gli esempi portati da May indicano come il cute scopra il nostro sogno sinistro, la follia di ritrovare un Eden e retrocedere a uno stadio infantile, dove grane e dissidi della vita vera cadono in oblio. Il paradosso è che l’infante non è solo un tenerello da coccolare. È anche un ricattatore più o meno consapevole. E un mondo di fanciullini si porta appresso la tendenza al ricatto: al carino non parli mai senza mettere in conto di poterlo offendere. Wittgenstein scriveva dell’espressione “che bello” come dell’indice di penuria lessicale e dunque intellettuale. Chissà che penserebbe del “che carino”, la cui frequenza fa capire come il fenomeno tracci i contorni dell’atmosfera presente. Un presente dove la forza di sostenere la bellezza pura è ridotta all’osso e si preferisce il tepore subdolo della carineria.

 

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