Thich Nhat Hanh A Parigi, nel 2006 via Wikimedia Commons 

meditare camminando

Cosa ci ha lasciato Thich Nhat Hanh, maestro Zen a caccia della consapevolezza di sé

Massimo Morello

Thây, uno dei maggiori esponenti della tradizione Zen contemporanea, è morto il 22 gennaio nel monastero di Tu Hieu. Nato in Vietnam nel 1926 riceve gli ordini a sedici anni ma si allontana dalla pratica tradizionale per seguire quella del cosiddetto “Buddhismo impegnato”

"La vita è come nuvole che passano e si trasformano. La morte è come la trasformazione delle nuvole in pioggia”, mi disse Thich Nhat Hanh molti anni fa. Thây, il Maestro, è divenuto pioggia alla mezzanotte di sabato 22 gennaio nel monastero di Tu Hieu, a Hue, in Vietnam. Aveva 95 anni. Alle prime ore del mattino seguente, quando l’ho saputo, pioveva anche a Bangkok, ma poco dopo si è rasserenato. Difficile non credere ai segni vivendo in questa parte di mondo. E proprio perché qui si vive, percepisci vita e morte in un senso leggermente diverso. O almeno così ti piace pensare: il rischio, per un occidentale in Asia, è la perdita di prospettiva, il voler cercare significati occulti, esoterici. L’aveva avvertito anche lui: “Se pensi ad altro perdi il senso del tutto. Il senso di te stesso. Non rovinare questo momento”.

Thich Nhat Hanh era uno dei maggiori esponenti della tradizione Zen contemporanea, scuola buddhista centrata su una forma di meditazione che va direttamente all’essenziale, ossia all’esperienza diretta dell’illuminazione. Secondo Teitaro Suzuki (1870-1966), il più autorevole esponente contemporaneo della dottrina, “Lo Zen non è una religione… L’idea base dello Zen è di venire in contatto con l’interna vitalità del nostro essere e per la via più diretta, senza alcunché di esteriore o sovrapposto”.
 

Nato in Vietnam nel 1926, Thich Nhat Hanh riceve gli ordini a sedici anni (Thich indica colui che è ordinato), ma ben presto si allontana dalla pratica tradizionale per seguire quella del cosiddetto “Buddhismo impegnato”. Inizia così la sua personale lotta alla povertà, all’analfabetismo, alle ingiustizie sociali e nel 1962 fonda un monastero tra le montagne vietnamite.
Intanto divampa la guerra: Thich Nhat Hanh torna a Saigon e diviene uno dei più importanti attivisti per la pace, tanto che sarà chiamato a guidare la delegazione buddhista ai colloqui di Parigi. Nel 1964 crea la Scuola della gioventù per i servizi sociali, un gruppo che opera nei villaggi bombardati della Dmz, la zona smilitarizzata tra Vietnam del nord e del sud che, nonostante il nome, fu teatro di numerose e violente battaglie. “A Tra Loc continuavamo a ricostruire una scuola e un’infermeria con canne di bambù e foglie di palma”, ricorda.

Nel 1966, dopo un viaggio negli Stati Uniti, gli è negato l’ingresso in patria. Da allora, nonostante la candidatura al premio Nobel per la Pace sostenuta nel 1967 da Martin Luther King, vagabonda esule tra Stati Uniti e Francia finché, nel 1982, trova un posto dove fermarsi e fonda il monastero buddhista di Plum Village, il villaggio dei prugni (la lingua ufficiale è l’inglese), a circa 85 chilometri da Bordeaux, in Dordogna, nella Francia sud-orientale.
“E’ stato un caso, come se mi ci avessero guidato gli spiriti degli antenati”, disse. E là lo hanno seguito e continuano a seguirlo uomini e donne che sembrano davvero guidati dagli spiriti: c’è chi ha vissuto le esperienze dei killing fields, i campi di sterminio cambogiani, e chi faceva parte delle forze speciali vietnamite che combattevano i khmer rossi. Personaggi come Chân Không, monaca nata e cresciuta nel delta del Mekong, che ha trascorso la vita lottando per un’impossibile pace tra viet-minh e francesi prima, viet-cong e americani poi. Fu là che avvenne quell’incontro, concesso a condizione di trascorrervi almeno una settimana di ritiro. “Essere buddhista significa insegnare la pratica. Il messaggio è la vita: rinasci sempre, di continuo”, disse. Seduto nella posizione del loto, la tonaca nera a coprirgli le ginocchia, tra le mani il bicchiere di tè, appariva la materializzazione di uno dei ritratti della pittura Zen. “La pratica ha un effetto positivo. Un nuovo tipo di energia scorre qui”. 

 

La pratica che rappresenta lo spirito più profondo dell’insegnamento di Thây è la meditazione in cammino. “La qualità non è in duecento passi. La qualità è in ogni passo. Ogni percorso rappresenta la vita”, dice. “Camminando per un viottolo sterrato fiancheggiato da macchie d’erba verde, se praticate la presenza mentale entrerete in contatto con quel sentiero”. Lui camminava davvero così, con elegante lentezza e profonda attenzione, tra i vigneti di Dordogna, come fosse su un sentiero del Vietnam, tra le risaie e le piantagioni di tè attorno a Phuong Boi, il monastero odorante di foglie di palma (le foglie dov’erano scritti gli insegnamenti del Buddha), un territorio che ai tempi era controllato dai montagnard, le tribù di montagna che sostennero gli americani contro i viet-cong (e che la pagarono a carissimo prezzo). Plum Village divenne così un polo d’attrazione per coloro che considerano il buddhismo una specie di prefisso spirituale: bu-ju, i buddhist-jews (gli ebrei-cabalisti-buddhisti), cristiano-buddhisti che s’ispirano ai mistici medievali, asiatici buddhisti in cerca di definizione e con loro i cultori del neo-sciamanesimo o gli junghiani che usano la dimensione spirituale nell’analisi del profondo. Una tendenza lontanissima, però, da fenomeni come quel buddhismo prêt-à-porter ciclicamente scoperto dagli agiografi dei vip. “Attenti a non cadere nella falsa meditazione: tenere gli occhi socchiusi, assumere un atteggiamento concentrato è sin troppo facile”, disse Phap Y, un monaco italiano che si sforzava d’infrangere gli stereotipi del misticismo orientaleggiante, “della filosofia del primo sorso di birra, della bellezza delle piccole cose”.

 

Ben più difficile raggiungere ciò che Thây ha definito “presenza mentale”, la piena consapevolezza di sé. Il che dovrebbe permetterci di vivere meglio. “E’ un processo di scoperte. Dovete essere del tutto presenti per ottenere una diversa percezione della vita. Dovete essere come giardinieri che coltivano il giardino di casa: coltivare le emozioni, abbracciare le emozioni. Riprendere contatto anche con la vostra paura e la vostra rabbia, se volete superarle. Se cediamo alla rabbia l’energia negativa continuerà a espandersi. E allora non ci saranno più nemici, solo vittime”. 
“Diventi mindfully drunk, ubriaco mentalmente”, aveva commentato un medico americano che studia gli effetti della meditazione come terapia: secondo le ricerche della Massachusetts Institute of Technology aiuterebbe ad aumentare le difese immunitarie. “E’ come se il corpo si ribellasse ai nuovi stimoli ed entrasse in crisi d’astinenza da elementi intossicanti”. 

 

Sull’onda della fama globale raggiunta dal Maestro, nel 2005 il governo vietnamita lo invitò a tornare in patria per una serie di conferenze. A quel tempo Hanoi voleva dimostrare la sua apertura alla libertà di culto: “Era in gioco l’ammissione alla Wto (l’organizzazione mondiale per il commercio)”, commentò Giang Nguyen, capo della stazione vietnamita della Bbc. Ma poi, dopo il 2007, raggiunto quell’obiettivo, il Doi Moi, il rinnovamento vietnamita, si arrestò alle soglie del Bat Nha, nel Vietnam centrale, dove vivevano i monaci e le monache che s’ispiravano all’insegnamento di Thây, che fu devastato da una banda di uomini inferociti. Secondo le autorità locali si era trattato di “un affare interno tra sette. Per molti, invece, l’irruzione era pilotata dall’alto. Nel 2009 non si cercarono più scuse: Thich Nhat Hanh e i suoi monaci furono accusati di “approccio scorretto nei confronti della politica dello stato vietnamita”
E’ solo nel 2018 che Thich Nhat Hanh può tornare in patria senza timore di persecuzioni e stabilirsi nel monastero di Tu-Hieu dove aveva compiuto il suo noviziato

 

Due anni dopo, all’inizio del 2020, ero andato a Hue per incontrarlo. Per me quel viaggio avrebbe dovuto segnare una rinascita e davo a quel possibile incontro un fortissimo valore simbolico. In realtà non sapevo bene che cosa stessi cercassi. Speravo che accadesse qualcosa, un momento illuminante. E’ vero: può accadere ovunque e normalmente è così. Ma è anche vero che vai in certi luoghi per la loro funzione. In chiesa a pregare, in palestra ad allenarti. E’ questo il senso della presenza mentale, l’insegnamento di Thich Nhat Hanh: la piena consapevolezza di sé, “di ogni respiro, di ogni movimento, di ogni pensiero e sensazione, di tutto quanto ci riguarda”.
Mi apparve dunque come una punizione per la mia arroganza o la mia superficialità mentale il fatto che Thây non fosse là, bensì a Bangkok, dov’era andato per curarsi. In compenso fui accolto da una giovane monaca che mi invitò a condividere il pranzo e una meditazione sulla preparazione alla morte. Sul fatto che è semplicemente una trasformazione. Apprezzai il pranzo, per quanto vegano, e la conversazione, nonostante mi costringesse a pensare alla mia morte. “Abbiamo più paura della vita che della morte”, mi disse in tono consolatorio.
Sono passati altri due anni e all’inizio del 2022 mi ritrovo a Bangkok. Proprio un giorno prima della morte di Thay.  Mentre trascorro le mie 24 ore di isolamento in attesa dell’esito del tampone mi chiama un amico che si trova a Hue. Mi dice che potremmo cercare di organizzarci per andare a trovare “quel monaco che avevi tanto cercato”.


Massimo Morello

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