Il ritorno di Antonio Delfini, il dandy inconcludente per cui scrivere era tutto

Giulio Silvano

Scomparso dalle antologie scolastiche, rivive in libreria. Lo scrittore modenese attraverso i suoi libri sognava ogni altro eventuale picaresco e puerile sbocco della vita

Praticamente assente dalle antologie scolastiche e dal canone dei benpensanti, ogni tanto si cerca di far rivivere Antonio Delfini e la sua opera. E’ cosa buona e giusta. Dopo tredici anni dall’edizione dei testi scelti da Gianni Celati per le “Letture” Einaudi (Autore ignoto presenta, ora fuori catalogo), Garzanti fa uscire I racconti nella rinnovata collana “I libri della Spiga”. Il libro vinse il premio Viareggio nel 1963, quando Delfini era già stato seppellito da qualche mese, unico barlume di riconoscimento oltre all’attenzione che gli hanno dedicato Natalia Ginzburg, Bassani, Garboli e pochi altri.

 

Dandy inconcludente, fascista anti fascisti, mattatore malinconico, surrealista decadente, provinciale disilluso, flâneur esiliato, onestissimo contaballe, “anarchico anafilattico idiosincratico socialdemocratico monarchico repubblicano” – per citare una sua poesia – Antonio Delfini è stato soprattutto un fenomenale giocatore della lingua italiana, capace con gran gusto e senza premeditazione artigianale di fondere i flussi del parlato e del pensato. Come nota Celati: nei suoi racconti sembrerebbe che “la lingua ne sappia sempre più di noi, e che nei suoi ritmi, nella sua musica, ci sia un elemento materno che ci guida”. Libero maestro di una forma assoluta di autofiction, nelle sue opere lo scrittore Delfini e il personaggio Delfini si mescolano, si confondono, si potenziano e si prendono a schiaffoni, dando vita a un uomo Delfini goliardico, disperato, inaffidabile e tenero che viaggia per Roma e per Firenze e per Viareggio e per la sua Modena. “Per me in quell’epoca, fare il buffone in città era come scrivere dei libri che dovevano restare”, dice in Una storia, che è quasi una novella, dove, con le sue delucidazioni sociologiche, il tono fa un po’ Vita agra (se Luciano Bianciardi avesse fatto la marcia su Roma invece della Normale di Pisa).  La benestante e bigotta Modena, o M***, è terreno di notti eterne, tra bische improvvisate, ragazzi del guf, contrabbandieri, zingarate, riviste autoprodotte, letture di Leopardi, tutto sotto l’occhio del regime, che porta ansia, paura, energia e voglia di fuggire. Non cantore della provincia degli anni Venti e Trenta, ma disincantatore. “Il fascismo fu per Delfini un mostro della specie di Moby Dick: un richiamo orribile, un’esperienza totalizzante alla quale non ci si può sottrarre”, scrive Garboli in Un uomo tranquillo (che minimum fax ha appena riportato in libreria con prefazione di Emanuele Trevi). 

 

Delfini vedeva nello scrivere la possibilità di continuare a sognare ogni altro eventuale picaresco e puerile sbocco della vita, perché il mestiere di scrittore era per lui “la somma di tutte le carriere (ivi compresa quella di condottiero militare, di rivoluzionario ecc.).” E tutto può diventare rimpianto: chiudere le porte sulle possibilità di avventura infantile vuol dire perdere il fuoco giocoso. Nel racconto Il ricordo della Basca, che dà il titolo alla raccolta uscita per l’editore fiorentino Parenti nel 1938, il protagonista quarantenne, Giacomo, “caduto al punto di far l’impiegato”, vittima di tutti i tic provinciali, ricorda l’ultimo momento della sua vita in cui è stato innamorato e felice: un’estate di più di vent’anni prima, in villeggiatura a Lerici, ammaliato da una giovane spagnola in vacanza. Come scrive Roberto Barbolini nella prefazione: il realismo di Delfini non riflette la realtà, ma “la nebulizza nel vortice delle sue molteplici possibilità, logorando a poco a poco la sua capacità di resistenza all’immaginario fino a trasformarla in fantasma di sé stessa: fantasia, illusione, ricordo del ricordo”.

 

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