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Ritratti di illustrastorie: la bella raccolta di Morello e Tancini

Matteo Marchesini

C’era una volta John, che inventò il libro per bambini, e poi vennero gli altri

Specie dopo una certa età, a chi deve seguire per mestiere le cronache letterarie capita spesso di cercare scampo dalla loro petulanza in libri che stanno ai confini dell’autonominatasi “letteratura”. Si cercano allora testi o molto “soggettivi” o molto “oggettivi”: da una parte i diari; dall’altra i cataloghi, gli atlanti o le antologie in cui si ritrova un pezzo di storia che si conosce solo in piccola parte, e che si sfogliano col gusto col quale i bambini si fanno raccontare più volte la stessa fiaba. Purtroppo i prodotti ben fatti sono pochi. Chi sa più scrivere una buona voce enciclopedica? Chi sa riassumere un fenomeno culturale in poche righe? Per farlo bisogna che in quelle righe filtrino una perfetta padronanza della materia e una seppure inappariscente originalità di sguardo. Tutte doti rare, che un’editoria alla deriva non apprezza e non può pagare con decenza. Per questo opere del genere nascono ormai soprattutto da un atto d’amore gratuito.

  

E’ il caso di Storie di illustrastorie. Trentasei ritratti inediti di grandi autori e illustratori per l’infanzia (Pitagora), firmato da Francesca Tancini e da Ericavale Morello, che sono talmente discrete da nascondere il loro nome sotto la bellissima sovracoperta. Anche la letteratura di cui qui si parla è nata spesso al di fuori di quello che i suoi autori ritenevano il loro lavoro “vero”. Non di rado, si diventa illustratori o scrittori per bambini preterintenzionalmente; e anche da questa circostanza deriva la felicità imprevista di certe invenzioni. Per caso e controvoglia fu partorito Pinocchio; e per uno scherzo della sorte il nome di John Tenniel, gran vignettista satirico vittoriano a cui i piccoli “nemmeno piacciono granché”, resta legato alle illustrazioni dell’Alice di Carroll, che lo fecero quasi impazzire. Gustave Doré, che voleva essere pittore, è entrato invece nelle case popolari con la prosaica linea delle tavole in cui ha illustrato Rabelais e Dante. Ma una cosa è mettersi al servizio di un classico, un’altra poter rielaborare l’arte cosiddetta maggiore dentro quegli albi che mescolano in una poesia allo stato nascente le tracce di ciò che la civiltà ha liquidato e le tracce di ciò che ancora non ha canonizzato, restituendo la corroborante sensazione che tutte le strade espressive siano percorribili.

   

E’ in particolare questo il mondo descritto nelle Storie. La Morello lo rende con disegni che mimano meravigliosamente l’incertezza tra ritratto e caricatura, e diluiscono il loro realismo pastoso in una danza di linee fantastiche. Quanto ai capitoli della Tancini, in tempi in cui si aspira ovunque a romanzare le vite dei personaggi celebri, ci dimostrano come sia molto più difficile e creativo questo lavoro di sintesi saggistica, dove s’intrecciano con mirabile equilibrio la biografia e l’ekphrasis, lo sguardo ravvicinato della conoscitrice e i campi lunghi della storia sociale, specie femminile. Qui una cultura vasta e di prima mano è proposta con affabile chiarezza, e il taglio del racconto viene variato a ogni ritratto per cogliere meglio l’ambiente e l’etimo del singolo artista. Perché queste “Storie” appartengono a tempi e spazi assai diversi: si va dall’Inghilterra settecentesca in cui John Newbery inventa il libro per bambini associandogli già i gadget (“una palla per i maschi, un puntaspilli per le femmine”) all’Italia del boom nella quale escono i silent book di Iela ed Enzo Mari, dai Moomin scandinavi di Tove Jansson (il primo “ha le fattezze di Immanuel Kant”) alle marionette del ceco Jiří Trnka, “Disney d’oriente” che fa passare la sua grazia violenta per la cruna della censura comunista.

   

Ci sono poi, naturalmente, i miti dei bimbi tardonovecenteschi che oggi si avviano verso la mezza età: il macabro, avventuroso, liberatorio Dahl; Dick Bruna con la sua coniglietta astratta da De Stijl; Sendak, che ha portato a New York gli incubi europei del Novecento; e infine il più famoso di tutti, Richard Scarry, che con la sua “capacità di trasformare in umano qualsiasi animale” mette in scena una quotidianità dove “il supervillain non ruba altro che banane e orologi”, e “si va all’ospedale solo per curare le tonsille”.

  

Quello che in un romanzo sarebbe un mondo filisteo, l’inno a un passato idealizzato, in Scarry sembra l’utopia di una vita a misura di tutti gli esseri viventi, un eden biblico travestito da cittadina di provincia. Niente oggi ci sembra più lontano di questo sogno umanistico, che forse la Tancini, come me, ha visto concretizzarsi almeno un po’ nella Bologna ancora socialdemocratica della nostra infanzia – una cittadina in cui, mentre diventava sempre più difficile immaginare palingenesi politiche, le speranze di cambiamento iniziavano a proiettarsi proprio sulle fiere dei libri per bambini.