Ritratto di Michel de Montaigne (LaPresse/Publifoto)

L'eresia di Montaigne

Adriano Sofri

Un saggio di Carlo Ginzburg svela il “segreto” del filosofo, che derise la superbia dell’uomo, illuso che la creazione sia avvenuta per lui. E che sempre lui, ora, possa mettere fine al creato. Come fosse Dio

Uno dei due inediti che entrano ne “La lettera uccide”, la nuova raccolta di saggi di Carlo Ginzburg per Adelphi, si intitola “Il segreto di Montaigne”. È un esperimento di lettura mosso da un dettaglio particolare e incerto, compensato dall’emozione di diventare i destinatari di un messaggio che l’autore ha dissimulato nel suo testo perché non lo smascherasse, e fosse riconoscibile solo a lui stesso: o forse a quel fraterno postero capace di leggerlo tra le righe e di farne parte agli altri, ormai al sicuro. Intanto, riferendo il proprio percorso, il ricercatore ricostruisce un ritratto di Montaigne (1533-1592) di mordente attualità. Ne farò pressoché una parafrasi, col difetto di mescolare qualche mia osservazione: lettrici e lettori sono avvisati, e assegneranno a me le sciocchezze o le banalità.

 

Al desiderio di Montaigne di descriversi “per intero, tutto nudo”, come gli abitanti delle terre appena scoperte, si oppongono non solo le convenzioni, ma il continuo oscillare e muoversi delle cose tutte – la terra, le rocce del Caucaso, le piramidi d’Egitto – e della stessa esistenza personale. “Non dipingo l’essere, dipingo il passaggio”. Lo stesso verbo, dipingere, allude piuttosto a un’immagine in movimento che alla scrittura, la quale fissa le cose in un punto. San Bernardo deplorava Pietro Abelardo come “homo sibi dissimilis, intus Herodes, foris Joannes, totus ambiguus”: dissimile da se stesso, dentro Erode, fuori Giovanni, interamente ambiguo. Più o meno così, ma serenamente, si descrive Montaigne, “mostro e miracolo”, “più mi frequento e mi conosco, più la mia difformità mi stupisce, meno mi capisco”. Più avanti, al “dipingere” si sostituisce il più pertinente “scrivere”, e qui, come a escludere la durata della sua scrittura fino al lettore di mezzo millennio successivo, Montaigne avverte: “Scrivo il mio libro per pochi uomini e per pochi anni… Date le continue variazioni che la nostra /scrittura/ ha subito finora, chi può sperare che la sua forma attuale sia in uso da qui a cinquant’anni? […] Noi diciamo che ora è perfetta. Altrettanto dice ogni secolo della sua” (anche il nostro? O non siamo di un secolo che ha impoverito e reso volubile ed effimera la sua scrittura?). È un saggio della sensibilità di Montaigne alla relatività delle cose, nel tempo, che lo separa dal futuro, nello spazio, che lo separa dai semplici “selvaggi” delle nuove Indie, nei soggetti, gli umani o gli altri animali…

Fare di Montaigne uno scettico assoluto sarebbe un errore grossolano. Ginzburg evoca il ruolo di Jacques Peletier du Mans, medico, matematico, poeta e scrittore, da cui Montaigne, suo buon conoscente e frequentatore, ha sentito che, per esempio in geometria, “il massimo punto di certezza nelle scienze, si trovano delle dimostrazioni incontrovertibili che sovvertono la verità dell’esperienza”. Nell’“Apologia di Raymond Sebond”, “il più lungo, e il più ambizioso, dei suoi saggi”, Montaigne scrive che “i pirroniani /i seguaci di Pirrone di Elea, IV-III sec. a.C., fondatore dello scetticismo/ si servono dei loro argomenti e della loro ragione solo per distruggere l’evidenza dell’esperienza; ed è strano fino a qual punto la duttilità della nostra ragione li abbia secondati in questo proposito di combattere l’evidenza dei fatti: poiché dimostrano che non ci muoviamo, che non parliamo, che non c’è niente di pesante o di caldo, con una forza di argomentazioni pari a quella con cui noi dimostriamo le cose più verosimili”. Passo (di formidabile attualità) che può anch’esso echeggiare un intervento di Peletier: “Ho scritto contro l’opinione dei pirroniani che pretendono che non sappiamo niente, che non percepiamo niente, e che finalmente non c’è niente in natura che possa essere detto vero”.

“Il Montaigne dell’“Apologia” è un limpido denunciatore dell’impostura dell’uomo al centro dell’universo: “Chi gli ha fatto credere che quel mirabile movimento della volta celeste, la luce eterna di quelle fiaccole ruotanti così arditamente sul suo capo, i movimenti spaventosi di quel mare infinito siano stati determinati e perdurino per tanti secoli per la sua utilità e per il suo servizio? […] Questa miserabile e meschina creatura, che non è neppure padrona di se stessa, ed è esposta alle ingiurie di tutte le cose, si dica padrona e signora dell’universo, di cui non è in suo potere conoscere la minima parte, tanto meno comandarla? […] La più calamitosa e fragile di tutte le creature è l’uomo […] e con l’immaginazione va ponendosi al di sopra del cerchio della luna, e mettendosi il cielo sotto i piedi?”.

Viene da misurare questa arringa con il doppio vanto dell’uomo di oggi, che veramente si è messo sotto i piedi la luna, e quando non sia più illuso che la creazione sia avvenuta per lui, si va convincendo che sia lui a metter fine al creato. “È per la vanità di questa stessa immaginazione che egli si eguaglia a Dio, che si attribuisce le prerogative divine, che trasceglie e separa se stesso dalla folla delle altre creature, fa le parti agli animali suoi fratelli e compagni… Come può egli conoscere, con la forza della sua intelligenza, i moti interni e segreti degli animali? Da quale confronto fra essi e noi deduce quella bestialità che attribuisce loro? Quando mi trastullo con la mia gatta, chi sa se essa non faccia di me il proprio passatempo più di quanto io faccia con lei?”.

“Per ciascuna cosa niente è più caro e stimabile del proprio essere (il leone, l’aquila, il delfino, non stimano niente al di sopra della loro specie… Di qui nascono quelle antiche conclusioni: di tutte le forme, la più bella è quella dell’uomo; Dio dunque ha tale forma… Dio dunque è rivestito della figura umana”. Qui la polemica con l’uomo che si eguaglia a Dio sembra scivolare nella polemica con il Dio immaginato dall’uomo a propria somiglianza. Ginzburg ricorda bensì che Montaigne sta parlando degli dèi greci e romani – dunque dei pagani, territorio non minato. Nella seconda edizione dei “Saggi”, 1588, introduce un rimando a Senofane (VI sec. a.C.): “Diceva argutamente Senofane che se gli animali si fabbricano degli dèi, come è verosimile che facciano, li fabbricano certamente simili a se stessi, e se ne fanno vanto, come noi. Di fatto, perché un papero non potrebbe dire così: […] sono il beniamino della natura; non è forse l’uomo che mi nutre, mi alloggia, mi serve? È per me che fa seminare e macinare. Se mi mangia, così fa l’uomo anche col suo compagno, e così faccio io coi vermi che uccidono e mangiano lui”. Montaigne, avverte Ginzburg, “finge di scherzare, ma fa terribilmente sul serio. Chi parla qui è il discendente, per parte di madre, di ebrei spagnoli convertiti. La derisione della superbia dell’uomo che si crede centro del mondo fa capire quanto sia assurda l’idea che Dio abbia potuto incarnarsi assumendo forma umana. Un’argomentazione aggressivamente criptogiudaica, esibita sotto gli occhi di tutti: un segreto di cui forse nessuno si è accorto, né allora né poi”.

 

Siamo al punto: un segreto di cui forse nessuno si è accorto, né allora né poi. La cautela, “forse”, non riguarda l’interpretazione del testo, ma l’eventualità che qualcuno se ne fosse accorto, e avesse solidarizzato col segreto (del resto la Chiesa cattolica, cui Montaigne apparteneva, si premurò di mettere all’Indice i suoi saggi). Si capisce l’emozione dello studioso che si scopre messo a parte del segreto, che così lo affratella a Montaigne attraverso i secoli. A rafforzare l’argomento, Ginzburg si vale di una acuta osservazione di Sophie Jama, autrice de “L’histoire juive de Montaigne” (2001). La pagina introduttiva della prima edizione dei “Saggi” portava la data del 1° marzo 1580: che coincideva quell’anno con la festività di Purim del calendario ebraico. Nella seconda edizione la data era aggiornata, 12 giugno 1588, ma nella copia nota come “l’esemplare di Bordeaux”, sulla quale Montaigne scrisse a mano le correzioni per una nuova edizione, che sarebbe uscita postuma, cancellò la data a stampa del 1588 e ripristinò di suo pugno quella della prima: “premier Mars de mille cinq cens quattre vins”. Dunque a quella data, e al suo significato implicito, Montaigne tiene specialmente. E perché Purim? – si chiede Ginzburg. In questa, che è la festa ebraica più gioiosa, è usanza travestirsi, e in particolare anche usare maschere. La maschera è un tema rilevante in Montaigne. In quella consuetudine di Purim può aver visto “una metafora del proprio giudaismo nascosto, mascherato?”

Scrive Montaigne: “Della maschera e dell’apparenza non bisogna farne un’essenza reale… È già sufficiente infarinarsi il viso, senza infarinarsi il petto. Vedo alcuni che si trasformano e si transustanziano in nuove figure e in nuovi esseri a seconda delle cariche che assumono, e che s’imprelatano fino al fegato e agli intestini, e si portano dietro la loro carica fin nella latrina”. Parole come transustanziazione e “imprelatarsi” in un brano che finisce in una latrina sono sorprendentemente trasgressive, e c’è il dubbio che si addicano a una dissimulazione religiosa. Più che un dubbio, si direbbe una certezza. Del resto la maschera per eccellenza è quella dell’ipocrita bigotto, del fariseo, del sepolcro imbiancato – “infarinato”. “Uno scoppio di rabbia anticattolica e anticlericale di chi sta digrignando i denti, sotto la maschera che gli copre il viso”. Transustanziazione e prelati segnano indubbiamente un contesto cristiano. Ci si può tuttavia chiedere se la dissimulazione di Montaigne non andasse al di là della “rabbia anticattolica e anticlericale”, e del ripudio ebraico di un Dio incarnato. La derisione dell’uomo che si prende per Dio, e dà al suo Dio le proprie fattezze, e pretende di dominare su tutti gli animali, non coinvolge l’idea stessa di Dio? È in Genesi, 1,26, che al sesto giorno Dio dice: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra”.

Dietro lo schermo degli dèi pagani e del genio di Senofane, Montaigne può non aver sentito che la sua argomentazione investe l’idea stessa di Dio? Montaigne oppone la natura, in cui tutto è tempo, è divenire, a Dio, che è fuori dal tempo. “Dio solo non è, non secondo alcuna misura del tempo, ma secondo un’eternità immutabile e immobile…”. Basta questa indipendenza dal “passaggio”, dal divenire, l’eternità senza principio e senza fine, a esonerare Dio dall’affinità con le sue creature? “Davanti al quale nulla è, né sarà dopo, né più nuovo o più recente, ma qualcosa che realmente è, che con un solo ora riempie il sempre…” (nunc et semper, maintenant et toujours, suona come una citazione del Gloria patri).

Torniamo all’evidenza dei fatti e ai loro negatori. Il giovane Montaigne, nel 1570, si era pronunciato drasticamente in pro delle “opinioni comunemente accolte”: “Una delle più notevoli follie degli uomini è l’usare la forza dell’intelligenza per distruggere e scandalizzare le opinioni comunemente accolte, che ci danno soddisfazione e contentezza”. Ma qui sembrava difendere ancora, contro “il dubbio, l’inquietudine, la febbre” della ricerca inesauribile, un conformismo, qualcosa di simile alla religione come instrumentum regni e di ordine pubblico, di felicità degli ingenui… Gli scettici, i seminatori di dubbi e di zizzania, sono come chi dà scandalo ai fanciulli. “Non è senza motivo che l’infanzia e la semplicità sono state raccomandate dalla verità stessa”. Vent’anni dopo, il suo motto è diventato quello: “Que sais-je?”, che cosa so?, e dubbio e ricerca tenace e affilata e giudizio mille volte soppesato sono diventati preziosi. “Un rovesciamento radicale, che sembra sfuggito agli interpreti”. E la stessa verità, ora, “per quanto nobile sia, ha le sue restrizioni e i suoi limiti”.

“Dietro queste parole s’intravvede la tortuosa traiettoria che aveva condotto Montaigne all’“Apologia di Raymond Sebond” e al suo messaggio nascosto”. A Ginzburg piace chiudere laconicamente le sue peripezie. Questo finire senza tirare le somme – le tiri chi legge. Precauzione? Sobrietà: ti ho apparecchiato, pasciti.

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