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Il feeling tra Petrenko e l'Orchestra di Santa Cecilia è una grande Festa della musica

Mario Leone

Il direttore dei Berliner Philharmoniker ancora per questa sera all’Auditorium di Roma

In un Auditorium vestito di rosso per la Festa del Cinema c’è un’altra “festa”, quella della musica, che ha come protagonista il direttore siberiano Kirill Petrenko e l’orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Ogni concerto di Petrenko è accompagnato da un’attesa spasmodica. E’ il direttore dei Berliner Philharmoniker, è un artista che si concede poco ai giornali e incide ancora meno, se non con l’etichetta dei Berliner. Un personaggio la cui riservatezza è direttamente proporzionale alla notorietà che l’accompagna.

Quarantanove anni, carisma magnetico, Petrenko è nato a Oms (Russia) ma si è formato a Vienna, prima come pianista poi come direttore. Una carriera austro-tedesca: Volksoper Vienna, poi Theater Meiningen. Dal 2013 direttore musicale alla Bayrische Staatsoper di Monaco. Interprete dalla chiarezza disarmante, la vena drammatica e l’attenzione viva per i particolari. Conoscitore del repertorio tedesco e già acclamato in Germania, la sua consacrazione arriva nel 2013, a Bayreuth, con la sconvolgente direzione della Tetralogia Wagneriana. Con i Berliner Phlharmoniker, Petrenko suona per la prima volta nel 2006 (con musiche di Bartók e Rachmaninov). L’amore scoccherà l’8 maggio 2009. L’accordo finale della seconda Sinfonia di Edward Elgar sfuma e la Philahrmonie, sold out, sembra ammutolita. Quell’attimo di silenzio che prelude a un applauso lungo e intenso. Il direttore fa cenno all’Orchestra di alzarsi per ricevere il meritato applauso. Nessuno dell’orchestra si alzerà. Tutti seduti. Perché il vero artefice di quell’interpretazione mozzafiato è proprio Petrenko. L’applauso è solo per lui. Un onore che raramente un’orchestra concede al suo direttore. Un artista capace di instaurare in pochi secondi un feeling con le orchestre che guida. I suoi concerti prevedono intense sessioni di prove dove si dona completamente ai musicisti. Una bacchetta che riesce a creare un’alchimia con l’orchestra e con il pubblico che assiste disarmato ai suoi concerti.

Nei concerti di questi giorni (l’ultimo stasera alle 18) non si può non parlare dell’Orchestra di Santa Cecilia. Petrenko parla la stessa lingua dei suoi orchestrali. Non impone un suono tedesco ma molto italiano, con lunghi cantabili e attenzione maniacale alle piccole nuances. Fa musica da camera il russo, con un gesto chiarissimo, una conoscenza minuziosa della partitura e la certezza di avere di fronte artisti che rispondono fedelmente a ogni suo cenno. Questo è il merito più grande dell’Orchestra Ceciliana: lasciarsi condurre nei meandri di tre partiture (“Calma di mare e viaggio felice” di Mendelssohn; il Concerto per pianoforte n. 2 di Brahms; La Mer di Debussy) dove la “tinta”, per usare un termine caro a Verdi, deve essere sempre chiara e ricca di sfumature. Nella compagine spicca la vigorosa presenza del ventisettenne Andrea Obiso, “spalla” dell’orchestra e trascinatore di tutti gli archi. Obiso è un solista e “impone” ai suoi colleghi quel suono e quel piglio. Nelle grandi masse sonore come nelle sfumature che tendono al silenzio, cerca il massimo possibile dal violino. In generale è tutta l’orchestra a essere a suo agio, in uno stato di esaltazione che ha tante ragioni: Petrenko, il pubblico in sala finalmente al completo, l’inizio di una stagione che dovrebbe essere (speriamo) tutta dal vivo. Un percorso di crescita che per molti aspetti rende Santa Cecilia la più “internazionale” delle orchestre italiane.

Due ultime parole sul pianista israeliano Boris Giltburg. Il secondo Concerto di Brahms è una brutta gatta da pelare. Tutto scorre tranquillo (forse troppo) e Giltburg sembra più preoccupato di controllare senza osare. Non è semplice “mollare” in una partitura che ha difficoltà d’insieme importanti e l’israeliano lo preferiamo nel recital solistico. Conferma di quanto appena detto l’unico bis (il secondo degli Etudes Tableaux op. 39 di Rachmaninoff) dove regala un fraseggio libero, suono cristallino e il pianoforte torna a cantare.