Un uomo cammina all'interno della moschea di Parigi (foto AP/Thibault Camus) 

Il processo alla verità. Intervista a Georges Bensoussan

Parla il grande storico trascinato in tribunale per aver detto che l'antisemitismo permea i “Territori perduti della Repubblica”. “Instaurato un clima di paura e censura”

Giulio Meotti

“In Francia gran parte della vita intellettuale si riduce a rintracciare gli ‘scivoloni’ degli avversari. In 500 quartieri una popolazione di cinque milioni di persone subisce oggi la spinta islamista. 60.000 ebrei se ne sono andati. Il mio paese rischia la balcanizzazione"

La vita di Georges Bensoussan cambia il 10 ottobre 2015. Il celebre storico francese, direttore editoriale del Mémorial de la Shoah di Parigi e fra i massimi studiosi di antisemitismo e medio oriente (i suoi libri sono pubblicati in Italia da Einaudi), è ospite della trasmissione radiofonica Répliques, su France 2. Si parla di fallimento dell’integrazione nelle periferie francesi, su cui Bensoussan ha curato il famoso libro Les Territoires perdus de la République: “Non ci sarà alcuna integrazione fino a quando non ci saremo liberati di questo antisemitismo atavico”, dice Bensoussan. “Il sociologo algerino Smaïn Laacher, con grande coraggio, ha detto che nelle famiglie arabe in Francia è risaputo – ma nessuno vuole dirlo – che l’antisemitismo arriva con il latte materno”. La vita e la carriera di Bensoussan subiscono una traumatica battuta d’arresto.

 

Chi tocca l'islam “muore”
Lo storico Georges Bensoussan (foto LaPresse)
  

Saranno anni di tormento. Il Movimento contro il razzismo e per l’amicizia fra i popoli, che aveva già fatto processare Oriana Fallaci per La rabbia e l’orgoglio, annuncia che trascinerà Bensoussan in tribunale per “istigazione all’odio”. Sarebbe nato anche un libro attorno al suo caso, Autopsie d’un déni d’antisémitisme, con le testimonianze di  storici come Pierre Nora e scrittori come Boualem Sansal. Il Memoriale, che non lo ha mai difeso in due anni, gli ha dato poche ore per liberare l’ufficio. “Mi hanno trattato come un delinquente”. Al primo piano del Palais de Justice a Parigi, fra gli accusatori dello storico c’è anche la Lega dei diritti dell’uomo, creata nel 1898 per difendere il capitano ebreo ingiustamente accusato di tradimento Dreyfus. L’avvocato Noëlle Lenoir, ex giudice costituzionale, dichiara: “Esprimo la mia ribellione e la mia costernazione nello scoprire che nella Francia del XXI secolo un intellettuale può essere portato davanti a un tribunale penale per una citazione sociologica. Questo processo è un altro passo in una strategia di intimidazione rivolta a tutti coloro che denunciano l’ascesa più allarmante di una nuova forma di antisemitismo in Francia e di orribili crimini commessi nel suo nome”. Di fronte al giudice c’è anche il Collettivo contro l’islamofobia, emanazione della Fratellanza musulmana.

 

 

Lo storico Georges Bensoussan: "La Francia rischia la balcanizzazione"

A distanza di quattro anni dalla fine dei processi, Bensoussan ripercorre la vicenda in un libro, Un exil français. Un historien face à la justice (L’Artilleur). Per riparare a un’ingiustizia? “Riparare un’ingiustizia? Ciò che è fatto è fatto”, dice Bensoussan al Foglio. “Volevo capire come si poteva mettere in atto una procedura così lunga, quasi quattro anni, e tre gradi di giudizio, che hanno tutti confermato la sconfitta dei miei avversari. E sulla base di cosa? Da una frase estrapolata dal contesto, quella di un programma radiofonico, un dibattito in cui ho citato un sociologo francese di origine algerina che ha detto la stessa cosa ma usando una metafora diversa. A proposito dell’antisemitismo familiare nelle famiglie arabe lui parlava dell’‘aria che respiriamo’ mentre io  del ‘latte materno’. In entrambi i casi, la metafora si riferiva all’impregnazione culturale attraverso l’educazione, non alla trasmissione attraverso il sangue. Tuttavia, i miei accusatori, e per un certo periodo almeno lo stesso sociologo, hanno trasformato il latte in sangue al solo scopo di stabilire l’accusa di razzismo. Da quel momento, parte  una denuncia sotto forma di petizione, poiché in Francia, oggi, gran parte della vita intellettuale si riduce, per alcuni, a rintracciare gli ‘scivoloni’ dei loro avversari, contribuendo così all’installazione di un clima di paura e autocensura. Il mio processo per il reato di opinione è stato reso possibile dalle leggi che hanno creato il reato di ‘incitamento all’odio razziale’. Io denuncio l’antisemitismo di una parte dell’immigrazione magrebina, quindi  sono accusato di razzismo contro questa stessa immigrazione. Se denunciare un pericolo è un ‘incitamento all’odio’, nessun avvertimento è possibile. Paradossalmente, l’aggressore si troverà confortato nella sua stessa violenza. Originariamente destinata a proteggere le vittime, la legge diventa lo scudo dei colpevoli che possono affermare di essere vittime di ‘incitamento all’odio’”.

 

Parlando di esilio, ha mai pensato di trasferirsi in Israele, come molti altri ebrei francesi? “Nel gennaio 2017, alla fine del  processo, ho parlato del sentimento di esilio che ho provato dopo aver sentito le sciocchezze delle parti civili, impantanate nella malafede o, nel caso di alcuni, nella stupidità. Sì, ero tentato di andare in esilio nonostante il mio attaccamento carnale alla Francia. Dal 2000, quasi 60 mila ebrei hanno lasciato la Francia per Israele e altri per il Canada, gli Stati Uniti e altrove. L’antisemitismo in Francia è diventato un luogo comune. Quelli che erano percepiti quasi venti anni fa come preoccupanti segni clinici, al momento della pubblicazione dei Territoires perdus de la République  sono diventati un ‘antisemitismo atmosferico’, soprattutto in quei quartieri difficili (500, ci dicono), dove la legge repubblicana non significa più molto. Come minimo, una popolazione di cinque milioni di persone, la prima a subire la spinta islamista e l’iper-violenza dei banditi. La ragione profonda di questa deriva antisemita in un paese dove l’antisemitismo tendeva a regredire dalla Seconda guerra mondiale è dovuta essenzialmente a due fenomeni. Da un lato, una crisi politica che mostra una società senza presa sul suo destino e che si sente espropriata del suo futuro. Una democrazia che si è spezzata, dove le elezioni sono segnate da tassi di astensione record. Una democrazia in cui gran parte delle decisioni sono prese da organismi tecnocratici non eletti e che influiranno sulla vita di milioni di persone, ma probabilmente non sui decisori che sono pochi, immagino, a vivere in queste città difficili dove tanti abitanti sono agli arresti domiciliari per mancanza di mezzi finanziari per lasciarle. Parte della classe politica, così come la parte più rilevante dei media, ignorano ciò che vive questa gente comune, che abbiamo visto uscire dal silenzio nel novembre 2018 con i gilet gialli. E’ su questa muta disperazione che prospera il pensiero cospirativo, che porta inevitabilmente all’incriminazione della figura dell’‘ebreo’ demonizzata per tanto tempo dalla cultura occidentale. Nelle società che non vedono più alcun futuro per se stesse, abitate dalla sensazione che la loro civiltà stia affondando, le menti poco allenate alla razionalità cominciano a cercare i colpevoli”.

 

La seconda ragione è il cambiamento demografico che la Francia ha subìto negli ultimi cinquant’anni. “Se l’immigrazione africana rappresenta oggi più della metà dell’immigrazione legale (tra 200 mila e 240 mila persone ogni anno), gran parte di questo flusso proviene dal Maghreb, da paesi  che sono ormai senza ebrei, nonostante i tremila che vivono ancora in Marocco e meno di mille in Tunisia (mentre alla fine della Seconda guerra mondiale, il Maghreb aveva quasi 500 mila ebrei). L’antigiudaismo era presente nella cultura popolare prima della comparsa del movimento sionista. Nel migliore dei casi il disprezzo, nel peggiore la violenza, erano spesso la sorte comune di questi ebrei nordafricani, specialmente dei più poveri. I numerosi immigrati maghrebini portarono in Francia questa cultura del disprezzo, che a volte si trasformò in  cultura dell’odio quando l’antigiudaismo tradizionale fu aggravato dallo shock dell’immigrazione e dell’acculturazione nonché dalle sfide che la modernità lanciava a un mondo tradizionale in rovina. Lo scontro tra due civiltà ha portato alcuni di questi immigrati a rifiutare il mondo occidentale. Questo rifiuto era spesso accompagnato da una reislamizzazione, sinonimo di un’esacerbazione dell’antigiudaismo tradizionale. Gli ebrei sono stati resi responsabili delle difficoltà di integrazione in Francia, a volte visti come un ostacolo all’integrazione. E’ la convergenza tra una crisi politica e la sfida migratoria”.

 

Cosa è cambiato sul terreno da quando hai scritto sui “territori perduti della Repubblica”? Gli islamisti stanno vincendo in molte aree? Scuole, periferie, proliferazione di moschee… “Gli islamisti stanno effettivamente guadagnando territorio per ragioni principalmente (ma non solo) demografiche. Se prima la Francia poteva integrare piccoli numeri di una popolazione straniera con la quale il divario culturale era immenso, ora non può più farlo visto che  si tratta di milioni di persone provenienti da un mondo governato dall’islam, che non ha una storia di minoranze. Nel 1965, la Francia aveva cinque moschee, oggi ne ha più di 2.500. A questo si aggiunge il caso particolare dell’immigrazione algerina, spesso caratterizzata da un potente risentimento contro la Francia, ma mescolato all’ammirazione e in equilibrio tra il desiderio di integrazione e quello di prenderne le distanze. In una società scristianizzata come questa, la ricerca di senso che è propria di ognuno di noi trova nell’islam una risposta all’angoscia del mondo moderno. Tanto più tra le popolazioni musulmane sradicate, raggruppate in periferie remote che favoriscono i fenomeni di comunitarizzazione, o addirittura di secessione. Le condizioni sono mature perché gli ex ‘territori perduti della Repubblica’ diventino, come scrive Bernard Rougier, i ‘territori conquistati dell’islamismo’”.

 

Appare evidente una sproporzione tra la sfida che stiamo affrontando e i mezzi e la volontà dimostrata dalle nostre élite. “La sproporzione tra il conflitto di civiltà che stiamo affrontando e i mezzi e la volontà per affrontarlo è lampante. I mezzi esistono, ma la legge deve essere ripensata; è inadatta a un’immigrazione di questa portata. Ciò che manca soprattutto, però, è la volontà di difendere un modello di società libera da una colpa che indebolisce l’occidente di fronte a giovani nazioni. Giovani nazioni, alcune delle quali convinte di avere una vendetta da compiere sull’ex colonizzatore. Una debolezza francese che si può riassumere in tre parole: il rifiuto di combattere. Dopo i 130 morti della notte del 13 novembre 2015, abbiamo visto fiorire nelle strade di Parigi questo cartello: ‘Non avrete il mio odio’. Era un’ammissione di debolezza di fronte a coloro che ci designavano come il nemico, un’ammissione di ignoranza anche in termini di antropologia culturale dell’islam. Perché, lungi dal calmare l’avversario, questo atteggiamento lo spinge verso il jihad, addirittura lo costringe al jihad quando è in una posizione di forza”. 

 

  

Da Boualem Sansal a Pierre Manent, molti hanno lanciato l’allarme sul futuro della Francia

Paralizzati dal “senso di colpa” e dalla “cattiva coscienza”? “Quello che è certo è che questa debolezza  alimenta la disperazione popolare”, continua Bensoussan. “Le grandi guerre civili europee del XX secolo, che sembrano aver esaurito il Vecchio continente, hanno fatto precipitare un rifiuto della guerra e del nazionalismo. Combinate con l’edonismo, l’individualismo e il consumismo, le società occidentali, frammentate e atomizzate – la Francia in particolare, minata dalla negazione della realtà – appaiono come un ventre molle indifeso”. 

 

Da Boualem Sansal a Pierre Manent, molti hanno lanciato l’allarme sul futuro della Francia. Una balcanizzazione della società? Una “libanizzazione”? “Alcuni hanno parlato di una guerra civile tra immigrati e ‘nativi francesi’”, ci dice Bensoussan. “Ha senso? Non credo. La scissione è  ideologica, divide tra loro sia i ‘francesi nativi’ sia i discendenti degli immigrati che sono diventati francesi. Questa prima linea oppone due visioni del mondo e due visioni della Francia che sembrano inconciliabili. Data la lentezza della società francese e la depressione collettiva che ammanta il paese di un’atmosfera di insoddisfazione e tristezza, credo che si vada verso una balcanizzazione della società, che si tradurrà in una sorta di divisione geografica. Le comunità di origine straniera vivranno sempre più ai margini della nazione. La nozione di ‘arcipelago francese’ divulgata da Jérôme Fourquet mi sembra pertinente. Si va verso un ‘arcipelago’ della società francese con zone in cui le leggi della Repubblica sono solo vagamente rispettate: convivono con la legge islamica da una parte e la legge dei briganti dall’altra,  prosperando sui traffici di ogni tipo. La frammentazione del territorio e la frammentazione del corpo sociale sono già realtà. In un grande paese d’immigrazione questa configurazione è forse sostenibile. Questo non è il caso della Francia, una vecchia nazione costruita dallo stato fin dall’XI secolo. A questo proposito, chi può escludere definitivamente un’eruzione di violenza da una parte della società? O anche l’esercito? L’unico punto d’accordo oggi è una consapevolezza generale della grave crisi che sta affrontando una nazione che è stata sconvolta da uno shock demografico le cui conseguenze politiche, secondo alcuni, sono forse più importanti della rivoluzione francese di più di due secoli fa”.

 

Il prossimo anno la comunità ebraica di Tolosa ricorderà i dieci anni dalla strage alla scuola ebraica. La comunità al tempo contava 20 mila persone. Oggi sono rimasti in 10 mila e il vicesindaco di Tolosa, Aviv Zonabend, ha detto che “il futuro del popolo ebraico in Europa è senza speranza”. Nel 1977 in Francia c’erano 700 mila ebrei. Si sono dimezzati. Questo il calo delle famiglie ebraiche in molti distretti negli ultimi cinque anni: Stains da 250 a 50, Saint-Denis da 350 a 100, La Courneuve da 300 a 80, Le Blanc-Mesnil da 300 a 100, Pantin da 1200 a 700, Rosny-sous-Bois da 300 a 200, Bondy da 300 a 100, Livry-Gargan da 200 a 130, Aulnay sous-Bois da 600 a 100, Clichy da 400 a 80, Neuilly-sur-Marne da 275 a 100… Intanto venivano uccisi sacerdoti (Jacques Hamel), fedeli cattolici (basilica di Nizza) e ogni giorno una media di due chiese francesi venivano profanate.

 
Ai benpensanti non piace, ma la barbarie multiculturale prende molto sul serio l’espressione “giudeo-cristianesimo”.

  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.