Etica cristiana, mercato, democrazia: enciclopedia delle sfide contemporanee

Alfonso Berardinelli

L'analisi di "Fratelli tutti", il dibattito su diritti civili e democrazia nel mondo, le implicazioni della trasformazione digitale. Riflessioni a margine dell’ultimo numero di Vita e pensiero

Succede a me come a chiunque di rimanere indietro con la lettura delle riviste. Ma se c’è una ragione perché questo mi sia accaduto con il numero 3/2021 di Vita e Pensiero è che si tratta di un fascicolo di particolare ricchezza, quasi una sintetica enciclopedia dei problemi attuali. Leggendo qua e là per tutto il mese di agosto. Le ragioni dell’attenzione che gli dedico saranno subito chiare se provo a elencare i titoli di alcuni articoli: “Fratelli tutti, solidarietà sociale e fede nel mercato”, “L’èra delle piazze, il potere fragile delle nuove folle”, “Le proteste in Asia e il fattore religioso”, “Una nuova Guerra fredda?”, “Usa e Cina ai ferri corti”, “Il capitalismo è davvero riformabile?”, “Intelligenza artificiale: dalla tecnologia all’umano”, “Gli algoritmi che governano il mondo”, “Ma il cristianesimo è una contro-cultura?”. C’è dell’altro, ma devo fermarmi qui se voglio far capire anche soltanto a quali ipotesi e proposte conclusive arrivano i diversi autori.


A proposito di “Fratelli tutti” dialogano gli scrittori Pankaj Mishra e Marilynne Robinson e il filosofo Michael Sandel. L’indiano Mishra sottolinea anzitutto che Papa Francesco è caratterizzato da tre primati: è il primo Papa gesuita, il primo che viene dalle Americhe, il primo non europeo dall’VIII secolo. Si tratta di caratteristiche e sensibilità culturali, sociali e politiche così nuove che a volte hanno sconcertato i cristiani più conservatori, attirando d’altra parte attenzione, interesse e passione di molti europei che in precedenza si mostravano indifferenti, se non ostili, alla religione e alla Chiesa. Venire dalle Americhe significa sapere per esperienza diretta quanto complessi, ambivalenti e drammatici sono sempre stati i rapporti fra gli Stati Uniti del nord e gli stati latini del centro-sud: in sostanza fra il capitalismo più sviluppato e ideologico e il sottosviluppo sia economico-sociale che civile e democratico dei paesi latini. Essere un gesuita ha significato poi l’ampiezza, modernità, duttilità e audacia militante di un Papa che non essendo cresciuto in Europa ha prontamente interpretato in modo più aperto il destino globale, universale, quindi “cattolico”, del cristianesimo nel Duemila. Ha perciò visto l’importanza del dialogo interreligioso e della vivacità culturale, sia critica sia tollerante, necessaria all’essere cristiani nel mondo attuale. Uno sviluppo economico privo di progetto morale e politico ormai nel mondo non è più praticabile senza far correre rischi incalcolabili e sempre più evidenti all’intera umanità. E’ la “modernità” dell’etica cristiana che la Chiesa deve rendere più attiva e pragmatica oggi e senza indugi. Un’etica in senso lato politica, cioè come prodotto di una fede che deve essere stile di vita e pratica sociale. Bisogna cioè aprire gli occhi sul prossimo.


Gli scopi e problemi per i quali negli ultimi anni le “nuove folle” sono scese in piazza nell’est europeo, in Sudamerica, in Nordafrica e in Asia riguardano i diritti civili e la democrazia. Opportunamente l’articolo di Damiano Palano su questo tema si apre ricordando che poco prima di morire, nel 1895, Engels volle correggere il suo amico scomparso Marx e le loro comuni convinzioni di un tempo. Avevano sopravvalutato l’importanza e l’esempio delle “barricate” di metà Ottocento, disse Engels, mentre era molto più importante partecipare alle elezioni e conquistare consensi sempre più ampi per evitare la violenza dello scontro e praticare invece una protesta nonviolenta lontana dall’“iconografia” degli scontri di strada. Più che le manifestazioni in sé, quello che contava dunque era il contesto pubblico in cui le proteste avvengono. Le proteste di Hong Kong, quelle nel Myanmar e in Thailandia hanno caratteristiche non omogenee ma la presenza dei giovani, delle fedi religiose, e la diffusione della sensibilità democratica in ampi strati della popolazione scolarizzata sono i fattori che creano un contesto significativo più solido, capace di rendere la protesta non effimera e nonviolenta.


Democrazia, dunque: ma che fare, cosa pensare del capitalismo, che di democrazia sembra vivere, ma che ostacola, anche, una migliore e più reale democrazia? Su questo dice la sua quel piccolo nuovo Marx che è oggi Thomas Piketty, secondo il quale “si può e si deve oltrepassare il capitalismo”. Come? Con “l’idea di un modello di socialismo partecipativo, decentralizzato, federale, ecologista, che si avvalga dell’apporto delle donne”. Beh, non c’è male, non manca niente. Ma non sembra un programma né nuovo né approfondito. Più originale è un’altra proposta di Piketty: “un’eredità di 120 mila euro a venticinque anni per tutti” perché “attualmente la metà della popolazione non riceve nulla, non eredita niente, mentre c’è chi eredita tutto”. Altra proposta: “La condivisione del potere e il diritto di voto nelle imprese”. La proprietà privata assoluta deve diventare sociale e “i dipendenti, indipendentemente da ogni partecipazione al capitale, devono avere un potere reale”.  Ma chi sceglie, chi decide, come funziona oggi il cervello individuale, sociale e politico che sceglie e decide? E’ in atto “un progressivo spostamento dei processi di decisione dall’uomo all’Intelligenza artificiale”. E se il controllo umano sugli algoritmi è oggi un problema a cui non si è trovata una soluzione, ecco che il socialismo partecipativo e decentrato di Piketty difficilmente troverà spazio. Quando “la mediazione tecnica esclude tutte le altre”, come ha scritto Jacques Ellul nel suo libro “Il sistema tecnico”, allora va detto che “l’ideologia della trasformazione digitale nasce e vive come sintesi di una forma radicale di capitalismo e quindi orientata naturalmente alla sola massimizzazione dei profitti, non certo del bene comune”. Una tendenza, questa, accentuata dalla “costante e alienante accelerazione sociale” alimentata, creata dalla crescita invasiva delle applicazioni e mediazioni tecnologiche.


Ideologia, valori, alienazione: “Ma il cristianesimo è una contro-cultura?”. Una riflessione sul tema è tentata da Roberto Righetto, quasi a concludere il numero. Si comincia perciò con un’affermazione forte: “Il mondo cattolico è afflitto da pigrizia intellettuale” che è in sostanza una pigrizia tanto religiosa quanto sociale. La secolarizzazione che ha caratterizzato la modernità non ha affatto esaurito però le risorse del “principio religioso” e oggi lo si vede nella resistenza che mostra di avere in America del sud e del nord, in Africa, in estremo oriente e nel sud-est asiatico. In realtà, dice Righetto, all’origine c’è il rapporto tra cristianesimo e Illuminismo, su cui si è tornato a riflettere dopo il Concilio Vaticano II. La necessità di superare la contrapposizione fra razionalità critica e valori cristiani è tornata con forza, anche se in stile diverso, tanto in Papa Ratzinger che in Papa Bergoglio. Il cristianesimo non può perciò continuare a essere considerato e vissuto come un corpo estraneo rispetto alla modernità culturale. L’umanesimo cristiano va semmai contrapposto, con una “nuova evangelizzazione”, alle forme moderne di nichilismo diffuse nella cultura alta e nella cultura di massa. Il cristianesimo è una cultura, cioè un orientamento della vita, che richiede immaginazione e coraggio. Righetto cita in proposito due libri recenti: “Accendere l’immaginazione” di Timothy Radcliffe e “Grazie all’immaginazione” di Nicolas Steeves, perché “il cristiano non può fare a meno di immagini” e “la tipologia di comportamento del cristiano di oggi deve saper resistere alle forme del potere della globalizzazione economica e della tecnoscienza, un Golia armato di un apparato tecnologico potentissimo”, per sfidare il quale c’è bisogno di un nuovo Davide.

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