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Ci si può fidare della meteorologia moralistica?

Alfonso Berardinelli

Quando l’occhio artistico di Ruskin vide nel cielo una “nube malefica e tossica”. Due conferenze del genio della critica raccolte da Franco Marucci

Da quanto tempo l’occhio e lo sguardo umani hanno smesso di essere uno strumento primario di indagine scientifica? Da quando l’osservazione naturalistica, il guardare con metodo e il saper vedere hanno ceduto del tutto alla misurazione e al calcolo nelle scienze della natura? Sfogliando il diario che Darwin scrisse durante il suo lungo viaggio a bordo del Beagle, brigantino di sua maestà britannica, partito da Devonport nel dicembre 1831 e arrivato cinque anni dopo nelle isole Galapagos al largo dell’Equador, il lettore ha continuamente l’impressione che fra le osservazioni dello scienziato e lo stile descrittivo del diarista non ci sia nessuna differenza. Il maggiore e più rivoluzionario naturalista del XIX secolo è un eccezionale osservatore dal vivo, sa guardare e sa magnificamente descrivere quello che vede. Ma il diario naturalistico è un modello di metodo e di scrittura che Darwin ereditava da una lunga tradizione, in particolare da un suo eminente predecessore, il tedesco Alexander von Humboldt (fratello del filosofo Wilhelm) che tre decenni prima aveva esplorato e studiato le coste dell’America meridionale. Si trattava allora di diari non troppo specialistici, nei quali si trovano osservazioni di geografia fisica, mineralogia e antropologia sociale mescolate con la passione romantica per l’esotico e le visioni di paesaggio. Si poteva passare dall’osservazione delle rocce e delle piante a quella delle nuvole e dei diversi tipi di azzurrità del cielo.

Tra osservazione, visione e visionarietà si arriva a John Ruskin e alla sua meteorologia moralistica, al suo saper vedere e voler vedere il visibile anche oltre il visibile, perché per un genio della critica d’arte come lui non sono concepibili qualità morali che non si vedano, che possano sfuggire allo sguardo. Siamo così alle due conferenze che Ruskin tenne nel febbraio 1884, ora raccolte a cura di Franco Marucci nel volumetto “La nube tempestosa” (Castelvecchi, 98 pp., 14 euro). L’anno scorso, recensendo un sociologo inglese, ero venuto a sapere dell’esistenza di queste conferenze e ne avevo citata qualche riga in un articolo dal tono metaforicamente apocalittico; ma ora posso leggerle integralmente e con una bella prefazione di Marucci, oggi il nostro migliore storico della letteratura inglese, oltre che ottimo critico (due cose che raramente si incontrano nella stessa persona). Trascrivo da Marucci: “Le due conferenze si rivelano non solo fra i più misteriosi ed enigmatici scritti ruskiniani, ma anche (…) la testimonianza insuperata e più impressionante dell’angoscia apocalittica che torturò un’intera epoca”. Era l’epoca del trionfo delle scienze positive e della filosofia positivistica che ne derivò; l’epoca in cui anche Marx, per scrivere “Il capitale”, si ispirava all’opera di Darwin, poiché una teoria scientifica della società capitalistica doveva prendere esempio dal modo di lavorare degli scienziati della natura. 
 
Se è vero, come dice Marucci, che Ruskin è per prima cosa un creatore di miti più che un critico d’arte in senso stretto, questo aiuta a capire meglio che anche la sua grandiosa, ossessiva critica morale e sociale aveva bisogno di miti positivi o negativi, inventava miti per acuire e dare sistematicità, coerenza e forza di suggestione alla sua condanna della moderna società borghese e del capitalismo industriale. Il suo romanticismo, la sua idealizzazione del gotico, alimentarono una visione apocalittica della decadenza estetico-sociale. In questo non era il solo, se si pensa che l’odio per le macchine, per le scienze calcolanti e la morale o l’estetica borghese lo si trova anche in Germania, da Goethe a Nietzsche, in Leopardi, in Baudelaire. La critica sociale aveva bisogno di miti positivi: lo era l’utopia comunista di Marx proiettata nel futuro come il mito dell’arte e della società medievali proiettato da Ruskin nel passato. Il rigorismo puritano e il culto della verginità culturale prerinascimentale fecero di Ruskin, assiduo lettore di Dante, un critico sociale dei più accesi e noti (Tolstoj lo citerà di continuo) benché non fossero pochi i suoi detrattori.

Espressione culminante del suo spirito apocalittico furono appunto le due conferenze sulla nube malefica e tossica, sul fenomeno meteorologico che Ruskin individua come assolutamente nuovo e annunciatore di catastrofi. Osservatore metodico e visionario nello stesso tempo, Ruskin parla di una scienza del vedere a occhio nudo che gli scienziati della sua epoca avevano perduto. Studiano e calcolano, ma non vedono. La loro scienza è perciò “esatta” ma miope o cieca. In assenza di giudizi e di percettività estetica, il nuovo scientismo non è altro che uno strumento al servizio dell’utilitarismo economico della società industriale, fondata sullo sfruttamento e sulla competizione, entrambi brutali.

Ruskin vede accadere in cielo qualcosa di mai registrato in nessun autore del passato, da Omero a Byron. E’ un “vento malefico”, un “vento tenebroso”, “una specie maligna di vento”. La meteorologia, il clima, il tempo atmosferico sono interpretati da Ruskin con categorie morali oltre che chimiche, come una malattia d’epoca e un sintomo di contaminazione diabolica. Ruskin protesta contro chi lo giudica “un vecchio acido e vaneggiante, sempre di cattivo umore”. E come prova del suo veder chiaro cita pagine dei suoi diari: “buio fitto come pece (…) estrema sporcizia di nube lurida e fumosa (…) densa foschia di manifattura”.
Ci si deve fidare di quello che vedeva Ruskin? Vedeva nel presente o nel futuro? Vedeva, voleva vedere senza strumenti scientifici e macchine al posto degli occhi. Oggi chi crede più ai propri occhi? Chi li usa? La nube di Ruskin non è dovunque? Fisica, mentale, morale, estetica, culturale… Con quali strumenti scientifici può essere identificata e descritta?

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