ANSA / MATTEO BAZZI

Le distopie dell'urbanistica (e della politica) nell'ultimo libro di Stefano Boeri

Manuel Orazi

“Urbania”, fra speranze ecologiste e presunzioni del passato

Non è “il block notes di un architetto in forma di diario” come indicato nello scarno prologo, ma la sua autobiografia: “Urbania” (a cura di Lucrezia de Marco, Laterza € 18) è l’ultimo libro di Stefano Boeri. Un’autobiografia intellettuale o meglio “scientifica” come piace dire agli architetti, quasi tutti folgorati da quella di Aldo Rossi, scritta sulle letture, i monumenti storici, gli incontri e i progetti che lo avevano formato. Boeri però non è un architetto come gli altri, perché a differenza di quasi tutti si è cimentato in prima persona con il fuoco sacro della politica, candidandosi alle primarie del Pd per il sindaco di Milano nel 2010 e facendo poi l’assessore nella Giunta Pisapia per un paio d’anni. Certo, ci sono alcuni precedenti illustri come Bruno Zevi, parlamentare radicale per una legislatura, e Carlo Aymonino, assessore Pci al centro storico di Roma, entrambi negli anni 80, ma la figura che gli è più affine è senz’altro Renato Nicolini – molto evocato nel libro –, l’unico architetto che, pur non avendo costruito quasi nulla, ha lasciato un segno sensibile nel modo stesso di fare politica, specie in ambito culturale.

 

Manifestazioni milanesi ormai consolidate come Piano City e Book City devono qualcosa alle esperienze effimere di Nicolini. Architettura e politica restano però due mestieri nettamente separati, come Boeri scrive in un capitolo centrale: “Diversamente dall’architettura, che procede per linee verticali, in un progressivo avvicinamento delle intenzioni alle azioni, delle idee al loro cantiere, delle visioni alla loro coerente trasformazione in spazi – la politica è un’attività che in gran parte si gioca sulla continua costruzione e ridefinizione di relazioni orizzontali: sulle alleanze, i compromessi, gli intrecci temporanei di interessi”. Saper giocare su due tavoli diversi lo ha certamente favorito, cosa che naturalmente fa imbestialire i suoi colleghi, ma la molla che lo ha spinto a saltare il fosso non è stata l’ideologia come nella Prima Repubblica.

 

Piuttosto è stato il fallimento del G8 alla Maddalena, ex area militare dove con altri fu chiamato alla sua riqualificazione e che oggi è invece ancora abbandonata a se stessa, dopo gli scandali e le inchieste sugli appalti della Protezione civile nell’ultimo governo Berlusconi. “Per una scuola del fallimento” è il titolo di un altro paragrafo, dove l’autore fa autocritica sulla propria presunzione, comune a molti architetti, di voler gestire un grande cantiere senza una sufficiente consapevolezza politica. Forse però, oltre all’autocritica, sarebbe più utile una legge sull’architettura che imponesse finalmente la direzione dei lavori ai progettisti invece che lasciare il cantiere in mano ad altri soggetti portatori di logiche totalmente diverse come appunto alla Maddalena. “Urbania” è nato come una serie di riflessioni tenute come dirette Facebook e Instagram durante la lunga quarantena dell’anno scorso a Milano, quindi riscritte e ampliate, dando conto del grande spettro di temi affrontati come le trasformazioni territoriali estreme negli ultimi decenni, la vita animale nelle città, la forestazione urbana, gli effetti del lavoro a distanza sui piccoli paesi e dunque della pandemia a medio e lungo termine.

 

Tutte questioni aperte che hanno coinvolto Boeri come urbanista e che oggi invece lo impegnano come presidente della Triennale di Milano, dopo aver diretto riviste storiche (Domus, Abitare) e partecipato a vario titolo agli episodi salienti degli ultimi anni (Bosco verticale a Porta Nuova a Milano, Expo 2015, ricostruzione dei terremoti del Centro Italia). Il libro riporta onestamente le tracce di tutte queste tappe, delle letture principali, dei collaboratori e degli interlocutori che più lo hanno guidato nel suo percorso costituendo una città interna, “quella regione del pensiero in cui si depositano, come fossero montagne e pianure, le convinzioni, i pregiudizi e le ossessioni che condizionano il nostro modo di osservare, nominare e immaginare la città reale”. Una definizione che esce allo scoperto nell’ultimo capitolo, “Urbania”, appunto, dove tutte le speranze dell’architetto milanese si realizzano in uno scenario globale futuribile e utopico in cui tutte le principali istanze ecologiste di oggi saranno accolte e realizzate. Si spiega dunque così il titolo altrimenti criptico se non sviante (Urbania è fra l’altro una bella cittadina delle Marche, ex residenza estiva dei duchi Montefeltro), con un richiamo alla storica collana di fantascienza “Urania” molto amata dagli architetti – i Superstudio ne leggevano due a settimana – che pubblicava invece perlopiù distopie che in fondo sono il pane dell’urbanistica. Problemi continui privi di soluzioni definitive.

 

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