Ha visto Nina volare

Simonetta Sciandivasci

I Ministri, l'indie rock, la cronaca nera e la musica leggera, Milano, il volo di Porto, Vasco Brondi, il parrucchiere, le parole, la cura per gli altri, il rifiuto della solitudine, un cuoco egiziano. Conversazione con Federico Dragogna

Cosa facciamo del presente, Federico Dragogna lo ha scritto nell’ultima canzone dei Ministri: “Cronaca nera e musica leggera, sempre più nera e sempre più leggera”. Mettiamo un po’ di musica leggera perché abbiamo voglia di niente, specie quando la cronaca è nera. Non cancelliamo: alleggeriamo, così sopportiamo tutto ed è come se non succedesse mai niente. Molti anni fa, aveva scritto che ci stavamo abituando alla fine e aveva ragione. Acuto e talvolta un po’ Cassandra.

Lo incontro a Nolo, nello studio che prima era dei Casino Royale e ora è suo e dei Ministri. Sediamo in una sala con un vecchio tabellone degli orari dei treni, un divano molto serio, due flipper, finestroni, bottiglie d’acqua.

Abbiamo pranzato in un’affettuosa trattoria egiziana dove si mangia (male) italiano: lui è di casa lì.

Come tutte le volte che lo incontro, Federico arriva da un fiume. Gli piacciono i fiumi. Ci campeggia accanto. Una canzone che ha scritto dice che nelle città senza fiumi non c’è nemmeno un posto per darsi un addio – ho sempre fatto caso a quel dare anziché dire.

Le canzoni dei Ministri le scrive lui ma le canta Divi, che ha una voce aspra inconfondibile, ed è più o meno così da quando andavano al liceo, il Berchet, insieme anche al batterista, Michele Esposito. Una volta, il preside indisse un concorso: scrivete un inno sul nostro bel liceo prima che io vada in pensione. Vinse Dragogna. Premio in denaro, anche cospicuo.

Sembra mille anni fa ma ne sono solo venti: allora, gli adolescenti che suonavano, ambivano al successo a scuola, la scena che desideravano era quella delle assemblee d’istituto. C’erano il post punk, l’hard rock, l’indie rock: c’era soprattutto l’indie rock, che da nicchia complicata, purista, impermeabile e anche un po’ antipatica, si allargò a qualcosa di molto più vasto, fino a includere Calcutta e i The Giornalisti, segnando così un altro confine, un altro genere, forse una fine.

Si diceva che finalmente l’underground era uscito fuori dagli scantinati e s’era ripulito, per alcuni infurbito.

Immediatamente dopo, quando l’indie rock venne dato per morto per colpa dell’indie pop, arrivò il rap: ci accorgemmo del rap.

A ciascuno di questi processi, i Ministri sono rimasti più o meno impermeabili. Sono rimasti i Ministri. Erano, sono cosa a sé. Una volta Dragogna ha detto che il rock è evento e chi ha visto un loro concerto ha un’idea chiara di cosa volesse dire – chi non lo ha fatto, può recuperare quest’estate, gireranno parecchio, lunedì saranno a Roma a Villa Ada.

Il loro ultimo EP, “Cronaca nera e musica leggera”, è una lettura ampia, articolata e colta del presente, suonata con rabbia allegra, di un’allegria operosa e fiduciosa – la fiducia ce l’hanno a cuore, le hanno dedicato un disco intero, il penultimo, quello con lo squalo in copertina: “Fidatevi”.

Quindici anni fa, quando uscì “I soldi sono finiti”, con l’indimenticabile copertina con un euro appiccicato sopra, il primo disco dei Ministri, Federico aveva 24 anni e senza aspettarselo troppo diventò il portavoce di una band che sui giornali era definita addirittura metal (metal! Ricordate?). Adesso ha le ambizioni simili ma ristrette, più placide, gli ideali intatti, la radicalità ridiscussa ma non archiviata. Tra due anni sarà un quarantenne e non va dal parrucchiere dal 2004, mi dice, perché sa fare da sé. Prende i ciuffi davanti e taglia, devo dire con buoni risultati.

Fa il produttore (ha prodotto Vasco Brondi e Lucio Corsi) e scrive. Gli piacciono i lati nascosti delle cose e delle persone, mi parla con entusiasmo di “Im Keller” di Ulrich Seidl, il documentario su cosa tengono in cantina gli austriaci.

Prima della pandemia, era in tour con uno spettacolo musicale che aveva scritto da solo, “Quello che ho capito di De André”. Lavora tra Genova e Milano.

 

Posso considerarla un'intellettuale?

Sono un intellettuale diplomato, non verrò mai riconosciuto, però sì, è una parola che non mi spaventa, e sì, lo sono. Passo letteralmente la mia vita a lavorare con il mio intelletto, a cercare di capire meglio, a cercare idee, letture, nuove parole per far vedere le cose in un modo nuovo. Lavoro con l’intelletto e, soprattutto, lo inseguo. La mia vita è fatta di pensieri che scappano, di idee che poi ti addormenti e le hai perse e il giorno dopo ti accorgi che le hai avute ma non sapresti riformularle e allora puf, niente, sono andate per sempre. Non sa quante volte avrei potuto cambiare il mondo, ma niente, mi sono addormentato.

 

E come sopravvive a queste occasioni perdute?

Rido, naturalmente. Però, quando le persone comprano i dischi che fai e i biglietti per venire ad ascoltarti suonare, per me è come se ti dicessero: continua a fare questa cosa, perché ne traggo un vantaggio; tu fai per me un lavoro di ricerca e formulazione che io non posso fare, per questo ti pago. È un ruolo che mi viene affidato e che mi appassiona enormemente, molto di più di cambiare il mondo – dopotutto, se fosse così importante, le idee per farlo non le dimenticherei dormendoci su, no?

 

È questo l’impegno?

Credo che l’impegno sia riuscire a fare opere che muovano qualcuno e smuovano qualcosa: forse più che muovano qualcuno. Non ho nulla contro l’artista che si schiera, che parla della causa del giorno, che prende una posizione netta, però le trovo tutte cose non necessarie: sono secondarie e complementari, che siano fatte o meno forse non fa troppa differenza. A me di un artista interessa come nelle sue opere riesce a parlare di quelle cose su cui prende posizioni, più che le posizioni che prende. Penso al grande dibattito sulla differenza tra arte e propaganda. Abbiamo avuto, nel Novecento, regimi che hanno fatto opere che oggi ci appaiono di pura propaganda, perché quello erano, nascevano per quello, sotto regimi tremendi o quantomeno discutibili. Però quel meccanismo scatta anche nell’impero del bene. Voglio dire: se fai una canzone che dice le cose più giuste del mondo e fuori è pieno di gente che applaudisce confermando tutte le cose più giuste del mondo che dice, stai facendo arte o propaganda?

 

Ha scritto su Instagram: “Manifestare è uno strano e necessario cortocircuito della democrazia, una scintilla causata dallo scarto considerevole che si crea a volte tra quello che decide la maggioranza e quello che si crede giusto. Talmente considerevole da farti scendere per le strade a urlare che la maggioranza sta sbagliando. E forse neanche se n’è accorta. Ecco perché urli”. Terza via?

Non sono sicuro di credere alle terze vie, comunque in quel post invitavo alla presentazione di un libro di fotografie di Dino Fracchia sui movimenti di piazza in Italia dagli anni Settanta a oggi, che contiene un mio intervento.

 

Quindi era un post di propaganda!

Esatto! Lo vede che è un cul de sac?

 

Mi dica del libro.

Mi hanno contattato, credo, perché una volta avevo scritto sull’importanza di tornare in piazza, cosa su cui ho riflettuto sempre molto e in particolare durante il lockdown, e sui popoli che sbagliano. Era una riflessione sulla visione di popolo come categoria bella e felice. Io sono cresciuto con l’idea che il popolo scende in piazza per chiedere diritti, e però da anni non vedo che delegittimazione di qualsiasi movimento si faccia avanti. Quelli che non vengono delegittimati, sono meteore, fuochi di paglia.

 

Il G8 di Genova credo sia stato una pietra tombale. Lei c’era?

Avevo 17 anni, ero andato in Francia in vacanza con un amico e avevamo programmato di rientrare in Italia passando per Genova di modo da essere presenti, ma i treni dalla Francia vennero bloccati pochi giorni prima e quindi rimanemmo in casa a guardare tutto dalla tv. Scrissi “La Piazza”, che è una canzone sul senso di colpa che provai perché per come ero e sono fatto, se mi dici che in un posto non posso andare, trovo il modo di andarci lo stesso: quella volta, non lo trovai, forse non lo cercai abbastanza.

 

È un senso di colpa che si porta ancora addosso?

No, per una ragione: penso di aver fatto, con quella canzone, più di quello che avrei fatto andando lì. Ho incontrato molte altre volte, ovviamente, la storia di quei giorni, una delle prima fu al Buridda, un centro sociale di Genova, dove conobbi la madre di Giuliani. Penso di aver capito la violenza che fu fatta a tutta la città con l’istituzione della zona rossa – e mi fa ridere che sia rimasta poi come espressione – solo e soltanto quando me la spiegarono i genovesi e dopo che ebbi conosciuto meglio la città. Penso poi ai genovesi che dovevano giustificarsi quando uscivano o tornavano a casa loro e ancora il rimbalzo con il presente è incredibile.

 

Lei dice spesso: per come sono cresciuto io.

Veniamo da una gigantesca crisi della verità e dell’autorità, quindi mi sembra doveroso premettere chi si è, che formazione si ha, ovverosia premettere che si sta per dare una propria visione delle cose, che è naturalmente parziale. Credo sia una buona norma in qualsiasi conversazione con chiunque, nel senso che quando parli con qualcuno che non lo fa, hai immediatamente un primo problema: indipendentemente da quanto sei d’accordo, non sai se la persona con cui parli dice cose che ha sentito dire e che replica, o se le ha analizzate e discusse. Carrère scrive i suoi romanzi in questo modo, specificando sempre: la vedo così perché sono io a scrivere, io a parlare, io a osservare. E “io” si porta dentro molte cose, storie, lenti.

 

Lei da dove viene?

Indiscutibilmente da Milano, cosa che quando ero piccolo mi sembrava normale e diffusa e invece oggi, quando la dico, mi procura sempre sguardi increduli. È vero che di milanesi che possano anche solo, banalmente, parlare in milanese, ne esistono sempre meno, io stesso da quando faccio parte dei Calamari ho dovuto imparare il milanese e, soprattutto, a cantare il milanese.

 

I Calamari?

È un progetto, devo dire più pensato che sperimentato, un gruppo che non si è mai sciolto e mai si scioglierà, composto da Dente, me, Enri Gabrielli, Gianluca De Robertis ed Effepunto: abbiamo fatto spettacoli di cabaret e teatro canzone, un misto tra Gufi e Monty Python. Ed è stato, per tutti, incluso Dente che è fidentino, come per un ragazzo adottato mettersi in viaggio per raggiungere il proprio paese d’origine: a un certo punto, senti che non puoi farne a meno. Riprendere quella tradizione, poi, è importante. Penso a pezzi come “Vincenzina e la fabbrica” di Viola e Jannacci o “Gh’è Anmò On Quaivun” di Nanni Svampa dei Gufi: nessuno ha raccontato meglio la Milano operaia e, soprattutto, quel cabaret pur volendo essere leggero, sapeva dare spazio e parola alla tragicità. Quando arrivi al tragico passando dal comico hai effetti più potenti.

 

Lei è anche un bravo intrattenitore, sul palco. Non direi comico, ma di certo molto divertente.

Quando ero bambino mi esercitavo moltissimo. Erano gli anni d’oro dei presentatori, sembravano le figure più potenti di tutte, e allora siccome io ero molto gigione, tutti mi dicevano che da grande sarei stato un presentatore.

 

E poi?

E poi venne fuori sempre di più, insieme al lato istrionico, il bisogno di avevo di staccarmi dagli altri. E cominciai a disegnare. A lungo, ho desiderato diventare un disegnatore. Mi rifugiavo nei disegni per creare qualcosa, tornare dagli altri una volta che fosse finita, mostrarla, ricevere amore e di nuovo staccarmi. Negli anni ho scoperto che niente mi interessa di più essere amato perché rendo felice gli altri, o anche solo rendere felici gli altri. Per me è più importante della mia felicità.

 

Forse perché è quella la sua felicità.

Sì, ma solamente per un attimo, mi viene poi una nostalgia istantanea, è come se l’appartenere a un qualche gruppo, a una qualche comunità o collettività, sia un asintoto: una cosa a cui tendo, a cui so che non arriverò mai e quindi posso solamente far qualcosa che faccia stare ancora più coesa quella comunità. Questo è quello in cui posso essere utile. L’essere riuscito a far riunire una limitata quantità di persone, ma comunque considerevole, che ascoltano le nostre canzoni, fanno amicizia tra loro, parlano, si sentono parte di qualcosa, è bellissimo. Io lo faccio succedere, ma non ne faccio parte, non posso farne parte.

 

Come mai le canzoni hanno vinto sui disegni?

Forse perché la canzone è un concentrato affascinante, ha una miriade di registri, puoi scriverla come se fosse un piccolo romanzo e ha una sua bellezza eufonica, delle caratteristiche naturali fisiche che le persone riconoscono.

 

È così certo che la musica venga capita dagli ascoltatori?

È un tema aperto: quanto poco sappiamo di musica, quanto poco rientri nella nostra cultura generale e come questo impedisca, di fatto, un ascolto consapevole e quindi un godimento estetico migliore o semplicemente una capacità di scelta più raffinata e varia.

 

Sarò più specifica: ci vuole una critica musicale che sia, appunto, musicale?

Sì, e non per gli addetti ai lavori: servirebbe al pubblico. La musica è un linguaggio. Spesso le persone non sanno perché sentono un’emozione così forte quando ascoltano le Spice Girls e i Rage Against The Machine, non sanno che a legare fortissimamente i due pezzi è una certa variazione, quindi è come se fossero vittime di un tranello, anche se poi non sono vittime, perché dalla musica si acquisisce solo piacere, ma la consapevolezza sarebbe importante. Sa che Platone diceva che la musica non andava suonata ma soltanto teorizzata?

 

Che noia.

Diciamo allora che è un peccato che oggi ci siano così pochi giornalisti che sappiano parlare di musica in termini tecnici, che siano anche in grado magari di svelare le trovate compositive più furbe, più ciniche. E nemmeno sanno più legare epoche e suoni: si limitano agli effetti di costume delle canzoni. E questo significa rinunciare a una enorme quantità di colori che la palette mette a disposizione, con effetti inevitabili anche sulla produzione musicale. La quasi totalità del pop e dell’hip hop italiano usa ormai un suono di cassa, uno di rullante, il charlie con il roll tanto amato dalla trap: tutte cose che fai con una macchina e che replichi all’infinito. La parte di ricerca musicale è quasi scomparsa dalla nuova discografia ed è pazzesco se penso a quanto ancora avremmo da tirar fuori dell’eredità di un’artista come Bjork, che negli ultimi tre dischi ha fatto degli esperimenti e delle sfide preziosissimi per il futuro, che noi abbiamo dimenticato di cogliere e abbiamo lasciato lì, senza eredi, o prosecutori.

 

Che significa, oggi, fare il produttore?

È divertente che ora in Italia si comincia a usare sia la parola produttore che la parola producer, che però vogliono dire due cose diverse. Non che ci sia una regola ma il producer è chi nel pop elettronico fa il beat, che in quell’ambito è anche una produzione di un certo peso, e conta nel risultato finale; mentre produttore si usa per una figura più nascosta, che sta dietro, che aiuta l’artista a esprimersi al massimo delle sue possibilità. Il produttore è un sarto, uno stilista che ti aiuta a capire come vestirti. Deve capire perché una persona sta cominciando a suonare, cosa vuole dire, e prima ancora se ha capito cosa vuol dire, quindi deve anche stressarlo, metterlo difronte ai suoi limiti. In effetti io tendo di più alla psicoproduzione: risolta quella, il disco è fatto.

 

Come sono i ventenni? Hanno tutto in pugno o li abbiamo in pugno noi?

Alcuni stanno spostando una quantità di ascolti e quindi di economie davvero significativi e, per quanto un certo tipo di narrazione ci faccia pensare che son sempre in pugno di qualcun altro, spesso hanno il coltello dalla parte del manico. Ce ne sono tanti, e mi viene in mente Mahmood, che mi pare abbiano piena contezza del potere che hanno di decidere verso cosa indirizzare la propria carriera. Mi chiedo se tutti gli altri riusciranno poi a tenere vivo il loro mondo facendo scelte del genere e quindi anche a essere ricordati e raccontati, perché poi questo è il punto: quante cose abbiamo visto in questi anni che hanno avuto numeri impressionanti e che dopo sono svanite e non verranno raccontate perché nessuno le ha amate abbastanza e ne ha avuto abbastanza cura? Questo credo che sia un punto fondamentale, peraltro comunque destinato al fallimento, nel senso che tra 150 anni del Novecento cosa rimarrà, Beatles e Bob Marley? C’è un limite allo spazio di archiviazione, e siamo tutti destinati a finire in uno scaffale alto di un rigattiere. Se la rischieranno, prima o poi, anche i Beatles.

 

Che tempi erano, i primi anni del duemila, quando avete cominciato a suonare?

Nel 2002 eravamo semplicemente ragazzi che uscivano dal liceo, io e Divi soprattutto eravamo attivi nei concerti della scuola, ai tempi nostri un ragazzo poteva ambire alla scena delle superiori, ora invece può ambire alle classifiche. Ed era tantissimo: che te ne fregava di fare un concerto davanti a tutti i ragazzi d’Italia, se potevi farlo davanti a quelli del tuo liceo, dove magari c’era anche quella che ti piaceva?

Appena fuori da lì, però, ci ritrovammo a dover avere una visione più ampia, e decidemmo di metterci insieme, noi capetti delle band di scuola. All’inizio di avere una visione sistemica della musica non te ne preoccupi: il punto è scrivere canzoni, mandare qualche demo registrata in casa ai concorsi e sperare che ti prendano. Io cominciai a fare il giornalista musicale poco dopo e allora sì presi ad avere una visione sistemica di cosa stava succedendo nella musica, quindi anche lo sguardo si ampiò e mi resi conto anche delle mutazioni profonde che sul fare musica stava creando la crisi discografica.

 

È vero che le svenne Avril Lavigne tra le braccia?

Può darsi. Ma ho un aneddoto migliore. Una volta mi chiesero un pezzo sugli Zero Assoluto. Mi impegnai tantissimo, raccolsi virgolettati, misi insieme un ritratto molto informato e consegnai il pezzo. Poco dopo il capo mi chiamò e mi disse: voglio sapere con chi scopano, il resto è inutile.

 

Torniamo agli esordi dei Ministri, per carità.

Ecco. Nel 2005 cominciarono a girare i nostri pezzi e nel 2006 decidemmo di forzare l’italiano e parlare un linguaggio nuovo rispetto a quello che era ancora il linguaggio nella musica underground emergente: c’era ancora una coda lunga degli anni Novanta, stando alla quale parte della musica underground d’autore doveva essere ampollosa, ricca di parole sdrucciole e metriche auliche. Noi invece ci facemmo in gran parte guidare da Battiato che fu dall’inizio il nostro esempio non tanto da un punto di vista musicale, quanto perché usava qualsiasi parola, spesso attribuendole un lirismo che magari in sé non aveva. Un anno dopo il primo disco, su MySpace, ascoltai i demo di Vasco Brondi e gli scrissi che mi piaceva, e mi sembrava che stesse arrivando alle nostre stesse conclusioni, alla volontà di forzare la lingua da quel punto di vista. Lui bucò con il primo album mettendo l’attenzione soprattutto su questo, noi avevamo anche tanta musica e i ritornelli e la spacconaggine, eravamo una rock band molto giovane su certe cose e su altre no, ma c’erano talmente poche rock band in questo senso che l’attenzione a una serie di cose che stavamo cercando di fare con il linguaggio passò in secondo piano: eravamo i rocker, appunto, ci mettemmo po’ per essere presi sul serio su tutto il resto. In questo sono stati preziosi i fan, le persone che hanno cominciato a seguirci e hanno messo un impegno serissimo nell’ascoltarci. Se ne sono accorti loro. Il mio ottimismo nei confronti del pubblico, in questo senso, rimane fortissimo. E noi cosa facciamo per dare conto di questa gente? Le interviste del Milanese Imbruttito su quando è stato fatto un trattato o l’altro, come se l’intelligenza fosse ricordarsi le date (adesso peraltro abbiamo device dove la vado a guardare la data del congresso di Vienna, che comunque fu nel 1815).

 

Perché scrive una newsletter della band così ricca di riflessioni, spunti, variazioni, approfondimenti dei testi?

Tutte le cose che mi sono inventato nel tempo, sono tutte complementari alla sostanza, perché la sostanza è importante che emozioni per come la canta Divi. Il resto è eccedente e rientra nella mia volontà di poter avere un campo in cui scrivere, inventare, creare un piccolo universo. Quello spazio di scrittura mi è sempre servito anche a raccontare come sono cambiati i mezzi a nostra disposizione e l’effetto che questo ha avuto.

Penso a come è nato il libro delle locandine: era uno dei primi concerti che facevamo a Milano, ci chiamavamo ancora i Ministri del Tempo, e io ero così grato, perché al tempo quando eri un esordiente riuscire a suonare davanti a qualcuno era la cosa più importante del mondo, una gioia infinita, e allora far sì che venisse gente e la cosa funzionasse era fondamentale, quindi mi dissi: ok, faccio una locandina per questo concerto, la fotocopio e la attacco in giro per Milano. Mi giurai che se il cielo mi avesse continuato a far fare concerti, avrei fatto la locandina di ogni data della mia vita. Così andò, quindi continuai a disegnare locandine, da un certo punto in poi, più ancora che per passione, per scaramanzia e gratitudine; a volte eravamo tra una data e l’altra e io non sapevo come arrangiarmi, e disegnavo sui fornelli mentre veniva su il caffè. Era una specie di patto faustiano. 

Com’era la musica intorno a voi?

C’erano tanti progetti: l’indie in quel periodo si confrontava molto con l’estero, quindi se eri una band italiana che faceva rock nel senso più ampio, dovevi essere credibile rispetto agli Strokes, a LCD SoundSystem. Di contro c’erano un sacco di progetti elogiati dalla critica che facevano trio con sax basso distorto e cantante che urlava in inglese, c’erano mille Idols, che però non riuscivano a comunicare con chi avevano davanti, per quanto potessero essere incensati dai critici e suonare bene, perché il pubblico era fatto di ragazzi che avevano anche bisogno di parole, di contenuti, non solo di stile credibile rispetto alla scena internazionale: chi se ne fregava più?

 

E si andava ai concerti.

C’era il mondo dei concerti underground dove andavamo in dieci e si suonava a mezzanotte, e poi c’erano i concerti super grossi. Ma c’è stata l’attenzione di una serie di discografici della scena indie nel cercare di supportare chi stava cercando di dire e creare qualcosa che andasse al di là del proprio stile. Quindi sia in noi che in Vasco o ne Il teatro degli Orrori, che passarono dall’inglese all’italiano, a un certo punto scattò questa voglia di italiano che non era affatto scontata all’inizio del 2000. Dopo ci furono tanti concorrenti da affrontare, arrivò abbastanza presto l’hip hop, e noi sembravamo quasi boy scout: avevamo la chitarra e l’amplificatore in mezzo a una guerra di robot. I produttori ci dicevano: dovete anche voi integrare, diventare elettronici, fare un remix, ma noi era come se non ci fidassimo di questi cambi di vestiti, per quanto ci fossero cose musicalmente molto belle. Le racconto una fiaba. Un bambino che gioca a calcio in spiaggia a piedi nudi ed è bravissimo, fa rovesciate pazzesche, viene notato da un talent scout che lo prende con sé per farlo giocare allo stadio. Lui ci va e il gran giorno scopre che deve mettersi le scarpe, ma con le scarpe non sa giocare e quindi fallisce.

 

Voi non vi siete messi le scarpe?

Noi abbiamo scelto una cosa molto piccola e ce ne siamo presi cura: l’abbiamo fatta come volevamo. I miei idoli hanno fatto lo stesso. Non hanno cercato di fare tutto, ma hanno curato progetti che arrivavano in punti limitati e chiari e così quello che creavano, giungeva bello perfetto tondo e compiuto. Considero importantissimi nella mia formazione artisti che hanno fatto opere che hanno meno ascolti di me: come potrò mai pensare che i miei ascolti sono pochi se chi mi ha ispirato ne ha meno dei miei? È un rapporto, un calcolo giusto di umiltà, si tratta di capire che cosa puoi fare, a che livello lo puoi fare, quanto ti interessa salire, da quel punto di vista.

 

Quanto le interessa salire?

Meno di quanto credessi.

 

Si sente mai solo?

Prima di sentirmi davvero solo, mi sono allenato a starci. Ho avuto il mio massimo tra i 25 e i 35 anni di vita: stavo sempre per conto mio, facevo solo vacanze in compagnia della mia chitarra, ovunque, andavo per deserti, poi a un certo punto, improvvisamente, mi resi conto che mi ero stancato. Ero in Spagna, stavo campeggiando verso il Portogallo, dove avrei preso un aereo di rientro a Porto e invece non ci arrivai mai. Feci di tutto per tornare a casa prima, in fretta, sentii l’esigenza forte di interrompere, anche con un gesto simbolico ma concreto, quella costrizione, quella specie di battaglia che avevo condotto per la mia solitudine. Era finita, basta. Mattia Pascal si era rotto le palle.

 

Che cos’ha capito di De Andrè?

Che mi interessa di più ascoltare qualcuno che sta cercando il bene pur facendo molti errori che qualcuno che dice di averlo trovato. Mi fido di quello che sbaglia. Mi interessa chi è andato a sporcarsi le mani, a rischiare, anche quando ha colpa piena.

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  • Simonetta Sciandivasci
  • Simonetta Sciandivasci è nata a Tricarico nel 1985. Cresciuta tra Ferrandina e Matera, ora vive a Roma. Scrive sul Foglio e per la tivù. È redattrice di Nuovi Argomenti. Libri, due. Dopodomani, tre.