Il resto di tutto

Simonetta Sciandivasci

Leopardi, la sperimentazione, il decentramento, il rischio, la voglia di sbagliare, Elena Ferrante, Falso Movimento, la rivoluzione, la super8, il Cilento. Conversazione con Mario Martone 

Nel Settantasette, Mario Martone aveva diciotto anni, frequentava il liceo, viveva a Napoli e spesso prendeva il treno per Roma, dopo la scuola, con i suoi amici, per andare a vedere gli spettacoli d’avanguardia nei teatri di cantina. Roma ne era piena, in quell’underground si trovava di tutto: i poeti che Renato Nicolini portò a Ostia per l’Estate Romana, che debuttò proprio quell’anno; le compagnie militanti; i gruppi indipendenti; il mitico Beat ‘72; la destra disimpegnata del Bagaglino di Pingitore; Carmelo Bene; Roberto Benigni; Carlo Verdone; Simone Carella. Inseguiva il teatro ovunque poteva, per lui non c’era niente di più importante. Senza, sarebbe morto.

“Altrimenti morirei” e “Forte” sono le parole che mi dirà più spesso durante il nostro incontro, a Colle Oppio, uno dei pochi quartieri di Roma ripuliti (parzialmente) senza gentrificazione – sarà che è troppo in centro.

È sempre nel ‘77 che Martone firma la sua prima regia teatrale, “Faust e la quadratura del cerchio”. Ci lavora con i suoi compagni di scuola, più o meno gli stessi delle scappatelle romane: con alcuni di loro collabora tuttora.

Da allora a oggi ha fatto il cinema e ha fatto il teatro: negli anni Ottanta li ha fusi, ora li fa dialogare. Nel suo lavoro non c’è che un filo rosso: la sperimentazione. Per dire, nel giro di pochi anni, è uscito un suo film tratto da “L’odore del sangue” di Goffredo Parise e un suo documentario sui saharawi. Nei prossimi mesi comincerà a girare un film tratto da "Nostalgia", l'ultimo romanzo di Ermanno Rea. A dicembre scorso ha aperto la stagione del teatro di Roma rappresentando il suo “Barbiere di Siviglia” e mesi dopo “La Traviata”, senza pubblico, usando il palco e la platea come spazio scenico, mostrando le macchine sceniche e realizzando un’opera cine teatrale nuova, che non ha niente a che fare con la lirica registrata, quella da cassetta che ogni tanto vedevamo in tv.

 

Dalle mie parti uno come lei si dice che non fa l’uovo.

Lei di dov’è?

 

Lucana.

Che bel sud. Indefinito, sconfinante. Un non luogo vastissimo che arriva fino al Cilento.

 

Che sia un non luogo è sicuro, visto quanto è complicato arrivarci.

Che pazzia. Se ci fossero le infrastrutture e la vita nei paesini fosse più facile, sono certo che moltissimi ragazzi ci si trasferirebbero. La connessione tra mondo globalizzato e uscita dalla metropoli esiste ed è in posti come quello che la politica dovrebbe fare sì che si realizzi, dotandoli di tutto ciò che serve a far sì che la vita per un ragazzo, in un paesino della Lucania profonda, o anche dell’Irpinia e moltissimi altri posti simili, non sia una pena.

 

Lei lascerebbe Roma per il Cilento?

Ho da poco comprato lì una casa, è il mio buen retiro.

 

Fa l’orto?

No, sono una frana.

 

Non vuole sapere che cosa significa che non fa l’uovo?

Certamente.

 

Significa che non è mai soddisfatto, mai appagato.

Diciamo che non lo sono mai completamente.

 

Per inquietudine?

Per forza, ma come vede sono anche molto tranquillo.

 

Perché è timido, e allora dissimula.

Perché sono timido, ma non dissimulo. Visto il lavoro che faccio non sono poi così timido.

 

Cosa la rende inquieto?

Non sentirmi mai centrato. Ha presente quel sentimento di non appartenenza, quello scarto sempre presente tra te e le cose, che ha rappresentato perfettamente Massimo Troisi? Mi descrive piuttosto bene.

 

Questa sua identità ibrida le ha dato problemi a lavoro?

Ora non più, ma agli inizi sì, eccome. Avevo una produzione quasi schizofrenica che le persone faticavano a capire e i critici non focalizzavano.

 

Mi parli degli inizi.

Finivano gli anni Settanta e io studiavo a Napoli, dove c’era una tradizione teatrale fortissima, Eduardo e Roberto De Simone erano ancora in attività, ma io ero attratto soprattutto dall’avanguardia, e allora viaggiavo spesso in cerca di altro, ricordo la folgorazione che fu per me “Einstein on the beach” di Wilson, che vidi nel ’76 alla Biennale. Fuggii da casa mia, come qualsiasi adolescente, con l’immaginazione, feci altro, esplorai il mondo e tornai poi a Napoli con lo sguardo pulito, libero. Lavoravo con mezzi molto rudimentali. Ricordo la sensazione che tutto intorno a me stesse cambiando irreversibilmente: la ricordo dal ‘68 in poi, sebbene allora fossi un bambino. Nel ‘77 fondai la compagnia “Falso movimento”, che durò dieci anni e con cui andai molto in giro, feci spettacoli e collaborazioni in tutto il mondo. Ci aiutava il fatto che i nostri spettacoli avevano drammaturgie piuttosto brevi, erano pieni di immagini, includevano spesso dei video, e soprattutto in quegli anni esisteva una rete tra gli artisti che era solida e larga. Ricordo che ovunque andassimo venivamo accolti come rockstar, ci conoscevano così come noi conoscevamo loro. Tutte le realtà artistiche di quasi tutto il mondo dialogavano tra loro, collaboravano: è questo ciò che, più di tutto, mi porto dentro di quegli anni, il lavoro collettivo e comunitario. Quando andavi a New York vedevi Laurie Anderson, Arto Lindsay, Peter Gordon, danzatori, attori: lavoravano tutti insieme. 

 

E perché chiuse Falso Movimento?

Lo feci quando mi resi conto che la spinta propulsiva degli anni Ottana era diventata un linguaggio televisivo, qualcosa di commercializzabile. Gli anni Ottanta furono fenomenali: arrivò il video, io filmavo con il Super8 che mio padre usava per fare i filmini in casa, la performance diventò fondamentale, e credo fosse la sintesi perfetta dell’ibridazione delle discipline che in quel tempo era così importante. Tutto quel decennio fu caratterizzato da questa spinta alla ricerca, non per forza finalizzata a un obiettivo preciso, a volte anche puramente estetica. Credevamo che sarebbe durata in eterno, invece nel giro di poco tempo quell’attitudine fu trasformata in pubblicità: dall’essere qualcosa di vivo, diventò quasi esclusivamente qualcosa di monetizzabile. Allora mi ritrassi. Feci il mio ultimo spettacolo con Falso Movimento e girai i tacchi. Era un lavoro ispirato ad "Alphaville" di Godard, anzi direi che ne era quasi il sequel: tematizzavo la crisi di quegli anni. Chiusi Falso Movimento e fondai Teatri Uniti con Toni Servillo e Antonio Neiwiller e presi a creare qualcosa di completamente diverso, pagandone anche lo scotto. I primi lavori non mi venivano troppo bene: tolsi le immagini, ridussi quasi a zero la parte audiovisiva e mi concentrai sul corpo degli attori, sui testi, sulla parola. Sentivo di doverlo fare. Tanti mi dissero che era da pazzi: avevo cominciato ad affermarmi, avevo imparato a fare delle cose e ora buttavo tutto all’aria e mi mettevo a fare quello che non sapevo fare? Ma proprio lì era il punto: dovevo cambiare e, per farlo, dovevo anche sbagliare. Si deve sbagliare.

 

Quando un lavoro funziona?

Se, tornando indietro, rifaresti per filo e per segno il processo con cui lo hai realizzato. Vale indipendentemente dal successo che quel lavoro ha avuto.

 

Lei ha mai lo spirito delle scale? 

Cosa?

 

Finisce un film, uno spettacolo, una conversazione, e mentre torna a casa pensa: accidenti, avrei dovuto fare questo, dire quest'altro.

No. Mai.

 

E come sa che un lavoro è finito? Come sa che ha detto tutto quello che doveva dire?

Il cinema, in questo, è piuttosto violento: ti obbliga a stabilire il momento in cui devi chiudere il film. E non si sgarra. La decisione, naturalmente, si prende insieme ai produttori, ma raramente per me è stata una decisione dolorosa, sebbene io starei al montaggio tutta la vita, non chiuderei mai.

 

Come si convince un produttore?

Io sono caparbio, alla fine riesco a fare il film che ho in mente, come lo ho in mente. Quando girai il mio primo lungometraggio, “Morte di un matematico napoletano”, erano i primi anni Novanta e da poco avevo cambiato il mio modo di fare teatro, con quella operazione di ripulitura dal visuale. Appresi la storia di Renato Caccioppoli, genio dell'analisi matematica, che si diceva fosse nipote di Bakunin, e mi venne immediatamente in testa di farne un film. Non pensai al teatro neppure per un secondo. Altrettanto immediatamente, seppi che non avevo intenzione di raccontare tutta la sua avventurosissima vita: volevo concentrarmi su un momento, quello prima del suicidio, e volevo farlo senza flashback, né voce narrante. Tutti i produttori a cui mi rivolsi non condividevano né questa scelta, né i nomi della mia squadra. In quegli anni, gli esordienti venivano sempre affiancati da professionisti consolidati, che avessero lavorato con i grandi maestri: ti davano come minimo il direttore della fotografia di Fellini o di Visconti.

 

E non era una bella fortuna?

Senza dubbio. Però era anche un modo per non crescere mai.

 

E allora cosa fece?

Decisi di fare il film per conto mio. Con Teatri Uniti chiesi un finanziamento al ministero e lo ottenni: 500 milioni. Non erano granché, quindi fui costretto a lavorare come si lavora sempre nelle produzioni indipendenti e cioè pagando molto poco, a volte nulla, alcuni collaboratori, girando nelle case degli amici, coinvolgendo nomi di spessore ma non di grido. Ci ritrovammo tra esordienti. La sceneggiatura la scrisse Fabrizia Ramondino, ed era la prima della sua vita. La fotografia la diresse Luca Bigazzi, che all’attivo aveva soltanto un film indipendente con Soldini. L’attore protagonista era Carlo Cecchi. Tutti i produttori lo avevano contestato perché non aveva mai fatto cinema, ma solamente teatro. E invece fu strepitoso.

 

Bel tipo Carlo Cecchi.

È il più grande genio teatrale vivente. Bisognerebbe intestargli una scuola, so che lo vorrebbe fortemente il direttore del Teatro di Roma, Giorgio Barberio Corsetti, e spero ci riesca. Trovo che Cecchi sia uno di quelli che, come diceva Cesare Garboli, ha ragione anche quando ha torto.

 

Perché non ha mai insegnato?

L’ho fatto soltanto una volta, alla Civica di Milano. Tra i miei allievi c’era Tommaso Ragno. Insegnare è bellissimo ma molto impegnativo. Mentre in una regia si lavora tra professionisti, e ciascun attore ha un ruolo diverso e stabilito, gli allievi di una scuola vanno trattati tutti da protagonisti.

 

Cosa si può fare soltanto al cinema e cosa, invece, soltanto a teatro?

Sono due cose distinte, sollecitano parti del cervello diverse. Il cinema è, come diceva Pasolini, un’arte della realtà, mentre il lavoro teatrale, e specificamente attoriale, consiste nella creazione di una maschera, diversa per ciascun attore, che attraverso di essa entra in contatto con lo spettatore.

 

Ma quella relazione è vera?

Lo è sempre. La maschera non implica la finzione e la finzione non è refrattaria alla verità. Con la maschera, però, una verità si crea. Con la macchina da presa, invece, una verità si svela. In entrambi i casi, entrambi gli strumenti producono un filtro. Il lavoro a cinema e a teatro è il lavoro sul loro specifico filtro.

 

Lei li ha fusi, però. Significa che non sono irriducibilmente specifici e diversi.

Io li ho fatti dialogare.

 

Mi sembra che in tutti i suoi film ci sia qualcosa che non c’è nel suo teatro. Mi sembra che lei al cinema abbia raccontato soprattutto storie di persone che a un certo punto hanno scoperto di essere state sconfitte, e le ha raccontate quasi sempre in quel momento.

Perché a teatro io non ci sono che da regista: c’è il mio sguardo, la mia direzione, la mia immaginazione, ma non ci sono io. Del resto, il regista appartiene alla storia del teatro ma non alla sua natura: è una figura spuria, che arriva a un certo punto. Nel cinema, invece, la macchina da presa è una appendice del corpo del regista: se faccio una panoramica da sinistra a destra, è il mio collo che si sta spostando da sinistra a destra. Al cinema c’è il mio sguardo e ci sono anche io, per intero.

 

Non mi ha risposto sul fallimento.

C’è in tutti i miei film, o quasi, e la ragione è difficile da spiegare. Però sta nei film. In “Noi credevamo” c’era il fallimento risorgimentale e, in trasparenza, quello degli anni Settanta. Ma il fallimento non è sfacelo: è una delle possibilità che le cose hanno, una delle strade che si possono intraprendere: in entrambi i casi, in modo inconcluso.

 

Sente il peso degli errori degli anni Settanta?

Mi piace di più pensare a quello che quel periodo può ancora dare. Le stragi e gli sbagli politici hanno finito con offuscare il resto: il lato propulsivo, la capacità di relazione e, soprattutto, il desiderio di sfasciare i confini, le barriere. Si viaggiava in tutto il mondo facendo l’autostop o a bordo di una motocicletta, si faceva il teatro nei luoghi che non erano teatri, c’era la liberazione sessuale. Tutto si apriva, tutti si incontravano. Nelle nostre società sempre più chiuse, e da molto prima della pandemia, può essere un esempio dirompente.

 

Insisto sul fallimento. Il suo amore per Leopardi c’entra?

Quando l’ho incontrato, ho capito di aver fatto dei film leopardiani. È stato un fatto retrospettivo. Leopardi ha parlato continuamente di fallimento e del modo in cui alimentiamo le illusioni. Detestava le magnifiche sorti progressive e aveva ragione: il 900 gli ha dato ragione su tutta la linea. Ed ecco perché lo capiamo molto di più di quanto lo capissero i suoi contemporanei.

 

C’è una scena del suo “Il giovane favoloso” dove Leopardi, interpretato da Elio Germano, litiga con alcuni conoscenti, al bar. A un certo punto urla: “Le mie opinioni non hanno nulla a che fare con le mie sofferenze personali!”. Il nostro tempo a questa coincidenza crede molto: la cerca e la induce.

È incredibile come questo ragazzetto di Recanati, uno che era una forza del passato, riuscisse a guardare tanto avanti. Ricordo lo stupore che provai quando lessi “Le Operette morali” e ci trovai dentro un drammaturgo che non guardava al suo tempo: ci trovai dentro Beckett. Alcuni anni fa, rappresentai Le Operette al Carignano di Torino. Dietro di me, in platea, erano sedute due ragazzine che non fecero che smanettare con il telefono per tutta la durata dello spettacolo. Eppure, le volte in cui c’erano dei momenti comici, mentre il pubblico adulto taceva intimorito, loro ridevano. Questo mi fece pensare da una parte alla freschezza e alla contemporaneità del testo, dall’altra al fatto che i ragazzi hanno delle facoltà nuove che noi non stiamo valutando e che, invece, io trovo assolutamente esaltanti.

 

Ascolta la musica che fanno?

Meno di quanto dovrei, lo ammetto. Però quando ho fatto “Il sindaco del Rione Sanità” e ai provini si è presentato un ragazzo che faceva il pizzaiolo e non aveva preparato niente e mi disse che era un rapper, gli chiesi di rappare su una base che aveva registrato sul suo cellulare. Con quel rap ci aprii lo spettacolo e affidai a lui tutte le musiche del film, cosa che gli valse una candidatura ai David. Adesso non fa più il pizzaiolo. Si chiama Ralph P. Nel 1982, inserii un rap in “Tango glaciale”, il mio primo spettacolo che ebbe successo. Ricordo che creammo la base con un 45 giri.

 

Lei suona?

Da ragazzo suonavo il flauto e il pianoforte. Il flauto mi si addice, sa, con quest’aria che ho di bravo ragazzo.

 

E lo è, un bravo ragazzo, una persona perbene?

Ci provo. Non fare del male agli altri è una delle mie ambizioni.

 

Crede in Dio?

No. Leopardianamente, no. Sa che quando uscì “Il giovane favoloso” in Francia, Le Monde mi intervistò e poiché dissi che Leopardi era ateo e che per lui non era stato affatto facile esserlo, Ernesto Galli Della Loggia mi attaccò con ferocia. Scrisse: chi ha dato la maturità a Martone? Mi resi conto che il fatto che un grande poeta della nostra letteratura non credesse in Dio, faceva ancora scandalo. Ma che Giacomo Leopardi fosse ateo è una verità incontestabile, basta leggere anche soltanto “Cantico del gallo silvestre” per capirlo. È però vero, come disse De Sanctis, che Giacomo è un ateo che ti fa religioso. Io non credo in Dio, ma non nego il mistero, lo vedo nella natura. C’è una scena di “Appunti per un’orestiade africana” di Pasolini che tenta anche di rappresentarlo, e per me ci riesce magnificamente. A un certo punto, quando vengono evocate le Eumenidi e le frasche del deserto si muovono: ecco, io credo a quella presenza. Meglio: non riesco a negarla, e nemmeno voglio. “Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne contenga la tua filosofia”. Quando ci penso, mi sento minuscolo.

 

E la cosa la inibisce?

Al contrario. Mi accende. L’immaginazione mi ci mette in rapporto.

 

I fantasmi di Napoli, le sue creature misteriose, la sua epica misterica, in questo, la condizionano?

Suppongo di sì. A Napoli sin da bambino ti viene insegnato che i vivi vivono con i morti, e infatti i miei film sono pieni di fantasmi.

 

La aiuta il fatto che i suoi film sono così introspettivi, forse. Tutti, incluso "L'Amore molesto".

È stato bello farlo. Fabrizia Ramondino mi portò il libro, mi disse che era bello, lo aveva appena pubblicato una scrittrice che non si sapeva chi fosse, Elena Ferrante, e mi consigliò di leggerlo appena possibile. Mi disse: è un giallo! Partii per gli Stati Uniti e lo lessi in volo. Ricordo che mi investì immediatamente, mi fece venire incontro i suoni di Napoli, e allora pensai che sarebbe stato un film interessante. Avevo appena fatto “Morte di un matematico”, che era un film tutto di testa, e invece questo è stato un film di corpi e sudore.

 

L’hanno tormentata quando Ferrante è diventata un caso editoriale mondiale, chiedendole chi fosse?

Qualcuno mi ha domandato, sì. Per me il suo è un gesto artistico importante e di peso: se svelassero chi è, mi toglierebbero un pezzo della sua arte. L’anonimato è una parte essenziale di Elena Ferrante, dell’artista Elena Ferrante: merita rispetto. A me piacciono gli artisti, quindi anche i loro gesti: sono intoccabili.

 

Riuscirebbe a non firmare un suo lavoro?

Mi piacerebbe da pazzi, ma un film è un lavoro di squadra, nasce smascherato, non ci si può nascondere. Io vivo davvero nell’immaginazione, quindi poter restare anonimo mi intrigherebbe tantissimo e piacerebbe molto anche al bambino che sono stato: gli regalerei il sogno di sparire dietro una sua invenzione.

 

Che bambino era?

Fantasioso e fragile. Imparai presto a reagire a quella fragilità e ora so bene di avere una forza, una forza necessaria, che arriva da quella reazione, da quel tempo della mia vita.

 

Perché ha cominciato questo lavoro?

Non lo so.

 

Per caso?

No. Per necessità.

 

Di cosa?

Di non morire.

 

Che tempo è il nostro?

Un tempo di rivoluzione.

 

Nei suoi film le rivoluzioni falliscono sempre.

Più che fallire, forse, semplicemente, finiscono. La rivoluzione è un fiore, nasce dove non te l’aspetti e ha vita breve o perché qualcuno la calpesta o perché così sono i fiori: durano poco.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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  • Simonetta Sciandivasci
  • Simonetta Sciandivasci è nata a Tricarico nel 1985. Cresciuta tra Ferrandina e Matera, ora vive a Roma. Scrive sul Foglio e per la tivù. È redattrice di Nuovi Argomenti. Libri, due. Dopodomani, tre.