"L'amica geniale", la quadrilogia dell'autrice Elena ferrante, ha ispirato una serie tv (Hbo-Rai) diretta da Saverio Costanzo e Alice Rohrwacher (Ansa)

Basta con i fantasmi

Chi ha paura di Elena Ferrante

Nicoletta Tiliacos

Un nuovo libro alla ricerca di luoghi e ossessioni di una scrittrice che è diventata leggenda

C’è qualcosa di più anomalo, nella nostra età dell’indiscrezione, di un successo letterario planetario nutrito, invece che ostacolato, dalla totale inconoscibilità del suo autore? Se di anomalia si tratta, il suo nome è Elena Ferrante. La scrittrice che dal 1992, anno dell’esordio con “L’amore molesto” (Edizioni e/o come tutte le sue opere), ha scelto di essere per il pubblico soltanto uno pseudonimo. Di lei, più elusiva di un gatto selvatico, non conosciamo né faccia né voce. Poche e vaghe notizie, binari morti ai quali non bada più nessuno – insegnante, sposata a un greco con cui vive ad Atene – sono più o meno tutto quel che da tre decenni viene attribuito alla vita personale dell’autrice dell’“Amica geniale”, la tetralogia inaugurata nel 2011 e conclusa nel 2014 con “Storia della bambina perduta”.

 

Imbarazzo per la riconoscibilità dei personaggi, adesione all’idea che di uno scrittore sia autorizzata a parlare solo la sua opera, perché la biografia è buona solo a incoraggiare pettegolezzi, ora e sempre Proust contro Sainte-Beuve: Elena Ferrante non ha mai smesso di spiegare – da remoto e per iscritto – i motivi di un’irremovibile scelta di segretezza, mentre i romanzi che portano la sua firma facevano fortuna nel mondo e i pettegolezzi, ovviamente, si moltiplicavano e rimbalzavano allegramente tra salon letterari e gazzette, rinfocolandosi a ogni successo di vendite. Finché la caccia alla “vera” Ferrante ha finito per assumere toni grotteschi, tra pseudo-agnizioni, smentite piccate e perfino rivelazioni fondate su dichiarazioni dei redditi squadernate da occhiute testate economiche. Ora però è arrivato in libreria “La leggenda di Elena Ferrante”, pubblicato per Garzanti dalla giornalista e scrittrice Annamaria Guadagni, che fin dal titolo sembra promettere disvelamenti ultimativi e sensazionali sull’identità più blindata del panorama letterario mondiale. Della caccia al fantasma nel libro si parla, è chiaro, sarebbe ben strano se non fosse così.

 

Ma il movente di questa originale indagine letteraria, storica, esistenziale, geografico-sentimentale, è quanto di più lontano dal proposito di scassinare un lucchetto di cui non esiste chiave. Al contrario, l’idea è insieme più rispettosa e più ardua: partire dalle cose che sono sotto gli occhi di chiunque, perché chiunque può leggerle nei romanzi, e quindi attraversare tutti i varchi lasciati aperti dalla stessa scrittrice misteriosa, per scoprire fin dove conducono. Conducono dappertutto. Nella Napoli popolare del rione Luzzatti e in quella borghese di via Chiaia, nelle fabbriche di scarpe del boom anni Sessanta e nella boutique di Ferragamo, nella città dei morti di Poggioreale e sulle spiagge di Ischia nell’anno delle riprese di “Cleopatra”, nel primo collegio femminile della Normale di Pisa e tra le operaie stagionali della Cirio negli anni Settanta, nel liceo delle élite Umberto I, che ha formato per generazioni la classe dirigente e politica napoletana, e nel sobborgo di San Giovanni a Teduccio, dove è vissuta la maestra di strada Carla Melazzini, valtellinese diventata napoletana per seguire i ragazzini che abbandonavano precocemente la scuola.

 

E ancora, tra le raffinate librerie antiquarie dove negli anni Venti e Trenta si aggirava il filosofo Benedetto Croce e tra i diecimila volumi raccolti dal Agostino Collina, il maestro e poi professore nato a Nola che nel 1948 aveva fondato la biblioteca popolare circolante al rione Luzzatti, il prototipo di quella dove le amiche geniali, da bambine, avrebbero preso in prestito i primi romanzi… Seguiamo ipnotizzati Annamaria Guadagni nella circumnavigazione dei mondi evocati dalla Ferrante, e ci accorgiamo che al centro c’è sempre la versione, a suo modo epica, di quella che, nel suo “Atlante del romanzo europeo”, Franco Moretti ha chiamato “frontiera interna”, riferendosi soprattutto al romanzo inglese dell’Ottocento: “Poche miglia di strada, e i rapporti sociali diventano completamente diversi (e con loro i valori ideali, le abitudini quotidiane, la lingua)”. Solo che frontiera interna, a Napoli, non ha bisogno di miglia per essere sperimentata. A segnarla bastano i diversi piani di un palazzo, dove gli inferi sociali dei piani bassi convivono con l’empireo dei piani alti e lo stesso tetto copre ambienti e destini abissalmente lontani. Lontani come quello che separa, sulla stessa piazza, i ragazzi che frequentano il liceo classico “Garibaldi” e i miserabili che trovano riparo nell’Albergo dei poveri. Attorno alla frontiera interna si addensano le infelicità e le ambizioni dei personaggi di Elena Ferrante, ma anche quando riescono a valicarla lasciano sempre qualcosa di sé dall’altra parte. È il sentimento che prova Lenù, l’amica geniale, quando ormai adulta, emancipata, lontana dalla povertà e dall’anonimato dell’origine, guarda dalla collina del Vomero il rione dove è nata, “una pallida pietraia molto distante, solo detriti urbani indistinguibili ai piedi del Vesuvio. Volevo che restasse così: ero un’altra persona adesso, avrei fatto in modo che non mi riafferrasse”.

 

E già lo è stata. “La leggenda di Elena Ferrante”, si sarà capito, è qualcosa di molto diverso da uno studio letterario comparato, da un’inchiesta d’ambiente limitata alla società culturale, da una raccolta di indizi e indiscrezioni editoriali, da una cartolina illustrata con panorama sul Vesuvio. Più che la verità su “chi” sia l’autrice – o l’autore o gli autori – dell’“Amica geniale”, Annamaria Guadagni cerca la verità sulla materia viva di un’ispirazione, sulle sorgenti di quella singolare creatura letteraria che porta quel particolare marchio di fabbrica. Tutto ciò che via via scopre, ricompone e ricombina, seguendo tracce a volte chiarissime, a volte esili come il filo di farina di una favola di Basile, confluisce in una sorta di grande palinsesto spazio-temporale dai confini mobili e irrequieti. Irrequieti come la terra su cui sorge la città, la Napoli da cui tutto ha inizio e alla quale tutto ritorna, esposta a turbolenze e terremoti che non smettono di ridisegnarne la geografia urbana e umana.

 

Nella “Leggenda di Elena Ferrante”, i luoghi dei romanzi e l’azione dei personaggi (quelli letterari e quelli reali, possibili o evidenti modelli dei primi) collaborano a un disegno che si dirama in nuovi passaggi segreti, nuove sovrapposizioni, nuove porte da attraversare. Più che un Baedeker letterario, il libro diventa una sorta di mappa al centro della quale, a suo modo visibile ma inafferrabile, c’è la signora chimerica che vive di vita cartacea e che vuole essere chiamata con un nome che non è il suo, lanciatrice di reti che sempre a lei ritornano, cariche di nuove storie. C’è di che appassionare anche chi sappia poco o nulla di Elena Ferrante, figuriamoci chi la conosce e la idolatra. Ma perfino chi non abbia letto nessuno dei suoi dieci libri pubblicati fino a oggi (l’ultimo s’intitola “La vita bugiarda degli adulti” ed è uscito lo scorso novembre), almeno grazie alla tv sa che il filo conduttore del ciclo delle amiche geniali è il legame profondissimo e conflittuale tra Raffaella Cerullo, Lila, la figlia dello scarparo, ed Elena Greco, Lenù, la figlia dell’usciere, seguite dall’infanzia alla vecchiaia, dagli anni Cinquanta a oggi. Entrambe nate nel 1944, figlie del tumultuoso Dopoguerra e di un rione napoletano mai nominato ma chiaramente identificabile, risolute a sfuggire, ciascuna a modo proprio, alla condizione di povertà e di soggezione alla quale in partenza le condanna il sesso non meno che l’origine sociale.

 

Non poteva che partire da qui il vagabondaggio di Annamaria Guadagni, dal ben riconoscibile rione Luzzatti, insieme centrale e periferico, magnifico e derelitto come solo a Napoli può accadere. E solo qui può accadere che, tra le persone che incontra al suo arrivo, si materializzi per puro caso una giovane donna che si chiama proprio Elena Ferrante. Nessuna meraviglia, è un nome comune a Napoli, e in un lontano passato probabilmente era stato usato come pseudonimo per certi scritti di gioventù anche da Elena Croce, la figlia del filosofo. Il fantasma si diverte, appare e scompare, gioca un po’, semina segnali, li cancella, indica una direzione e subito dopo quella opposta. Oggi, sulla scia del successo dei romanzi e della fortunata serie televisiva che ne è stata tratta, il rione di Lila e Lenù è diventato meta di turismo letterario. La giornalista Titti Marrone, firma di lungo corso del Mattino, organizza visite guidate alla scoperta dei luoghi delle amiche geniali, proprio com’è accaduto in tempi recenti per la Roma tenebrosa ed esoterica dei romanzoni di Dan Brown, tra l’Hotel Bernini, Santa Maria del Popolo e Santa Maria della Vittoria. Ma l’antecedente di turismo letterario più pertinente, per la storia che ci interessa, è vecchio di centocinquant’anni e va localizzato a Concord, Massachusetts.

 

Lì visse Louisa May Alcott, l’autrice di “Piccole donne” per sempre identificata con la sua creatura letteraria Josephine, detta Jo, la più volitiva e talentuosa delle quattro sorelle March, quella che non cerca marito ma sogna, e conquista, la gloria come scrittrice e la ricchezza per sé e per la propria famiglia. Pletore di ammiratori e soprattutto ammiratrici dei libri della Alcott si recavano in pellegrinaggio a Concord, per vedere con i propri occhi dove e come vivevano le “vere” piccole donne, al punto che la famiglia di Louisa si trovò costretta ad assecondare, per quanto poteva, quell’aspettativa. “La leggenda di Elena Ferrante” riserva pagine illuminanti alle parentele e ai rimandi nascosti tra la tetralogia delle piccole donne americane e quella delle amiche geniali napoletane.

 

Ci sono quattro libri in entrambi i casi, naturalmente, ma c’è soprattutto la centralità conclamata dei legami tra donne: sorelle, amiche, madri, figlie. C’è anche il processo d’iniziazione delle giovanissime, future scrittrici – Jo March ed Elena Greco, che lo sarebbero diventate davvero, ma anche Lila, che avrebbe potuto – e l’emergere di ambizioni che rifiutano il destino segnato e fanno affidamento sui talenti che ognuna spera di possedere. Chi ha letto “L’amica geniale”, sa che “Piccole donne” è una sorta di Bibbia per le bambine Lenù e Lila, che lo hanno preso in prestito alla biblioteca circolante del rione, lo hanno consumato a furia di leggerlo (è capitato a tutte, anche a noi ragazzine degli anni Cinquanta, ma anche Sessanta, Settanta e forse Ottanta) e si sono giurate che avrebbero seguito l’esempio di Jo nella ricerca della miniera d’oro e di libertà a portata di penna. Tutte le ipotesi fatte sull’identità segreta di Elena Ferrante – nel corso del tempo, è toccato a Fabrizia Ramondino, a Goffredo Fofi, a Domenico Starnone e Anita Raja, alla storica Marcella Marmo, perfino a Sandro Ferri e Sandra Ozzola, titolari delle Edizioni e/o – quelle meno convincenti sembrerebbero riguardare i maschi, tanto è carnalmente “femminile” la materia dei suoi libri. Ma è davvero così? “La leggenda di Elena Ferrante” segue la traccia potente che conduce a casa di una sarta. Sarta è Amalia, la madre eccessiva e perturbante dell’“Amore molesto” (una magnifica Angela Luce, nel film che ne trasse Mario Martone); quello della sarta è il lavoro che Elena Ferrante, nella raccolta di interventi e interviste che è diventata “La frantumaglia”, attribuisce a sua madre; sarta è stata nella realtà la madre del napoletano Domenico Starnone, tra i maggiori indiziati, con sua moglie Anita Raja, nella caccia al fantasma.

 

Di certo, chiunque abbia frequentato la bottega di una sarta sa che è il luogo più classico delle confidenze, della familiarità fisica che diventa emotiva e invita a raccontare di sé. Cucire vestiti in fondo è come cucire storie, il filo dell’imbastitura è lo stesso della catena infinita del racconto tra donne, mille volte strappato e ricucito, spazio di libertà che nessuna oppressione ha mai potuto limitare. Storie che premono per moltiplicarsi, sparpagliarsi, trasmettersi, voce dopo voce, casa dopo casa, soggette a quelle fatali variazioni che trasfigurano e tradiscono, fino a che il racconto originario si perde e si amalgama in mille altri. Tutto questo, in conclusione, è anche Elena Ferrante, di cui sappiamo l’unica cosa davvero essenziale: è lei il personaggio più importante dei suoi romanzi. “L’esistenza della famosa scrittrice in fondo è tutta qui: Elena non proietta sé stessa nei suoi personaggi, è una di loro”, scrive Annamaria Guadagni. “Questa non è la storia di un’anonima signora che, scrivendo romanzi d’ispirazione autobiografica sotto falso nome, è diventata un personaggio da romanzo; è tutto il contrario, è l’avventura di una figura d’invenzione, di un personaggio che grazie alla forza della sua voce ha preso un posto nel mondo trasformandosi in una persona e, col tempo, persino in una sorta di oracolo letterario che risponde alle domande dal profondo del suo antro”. E comunque, è chiaro, “la leggenda continua”.

 

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