Édouard Manet, Due peonie bianche e un paio di forbici (1864). Olio su tela (31×46,5 cm), Museo d'Orsay, Parigi (foto Wikipedia)

Baudelaire è vivo

Giulio Silvano

Ecco il poeta uomo. Per la prima volta, la poesia da immortale diventa mortale

I poeti sono persone che non accettano la realtà così com’è. In questo possono essere confusi coi pazzi. Quando all’uscita de I fiori del male il ministero dell’Interno di Napoleone III redige un rapporto che ne dichiara i testi “una sfida lanciata alle leggi che proteggono la religione e la morale”, Baudelaire scrive in una lettera: il governo non avrà il tempo di “processare un pazzo”. E invece il regime del Secondo impero, sostenuto da un’omologazione mediatica obbediente e dalla spinta al progresso industrial-capitalistico, lo porta in tribunale, perché ha paura dei pazzi, e dei poeti. I miti rivoluzionari sono stati fagocitati dal potere. I regimi duraturi sono furbi e, non volendo dar troppa pubblicità a Baudelaire, autore ed editore se la cavano con una multa e con il taglio dalla raccolta di sei poesie incriminate. Tra queste, “Lesbo”, dove appare la domanda: “Che voglion da noi le leggi del giusto e dell’ingiusto?”.

 

I critici, al posto dei tribunali, hanno le recensioni e quelle dei Fiori sono spietate: i testi son troppo “oscuri”, oppure troppo “civettuoli”, l’autore non sembra voler andare incontro al lettore. I temi turbano. Ma i letterati sono ancora più terrorizzati dalla forma: è grossolana, il sonetto viene “sabotato”, non è fluido.

 

Giuseppe Montesano, nel suo Baudelaire è vivo, appena uscito per Giunti (1.296 pp., 28 euro), parte dai detrattori per raccontare il poeta francese. Troviamo qui le radici del modernismo: quella dei Fiori del male “è la poesia che rompe definitivamente il suo patto con il sacro e con il mito svelandone l’essenza falsificatoria”. Bisogna ammazzare le muse e sostituirle con se stessi. La poesia da immortale diventa, per la prima volta, mortale. Quello che non vedono i contemporanei di Baudelaire è che “l’opera è imbevuta fino all’osso del suo contenuto, e il contenuto è diventato il suo linguaggio: la sua forma”. Non si accorgono che non esiste più una differenza. A dodici anni, dal collegio, il poeta scrive al fratello che “le idee sono forse irregolari come la scrittura”. Alberto Savinio non a caso lo chiama “il Copernico della poesia”, perché compie una di quelle rivoluzioni che nessuna restaurazione potrà mai cancellare, che scuote quel secondo Ottocento, intriso da un positivismo che ci ha spaventati, allontanandoci dall’eros e dalla bellezza.

 

Montesano – non da filologo ma da scrittore – traduce, cura e soprattutto racconta, i Fleurs du Mal. Costruisce intorno all’opera del parigino un’impalcatura da sapiente appassionato che ci permette di vedere non solo ogni stratificazione contenutistica della poetica, ma la vita di Baudelaire uomo, che pian piano inabissa la propria mélancolie facendola diventare Spleen. Nei commenti a ogni verso attraversiamo gli amori, le amicizie e i fastidi per la società dell’epoca e per quei dolori eterni che dannano ogni individuo: l’egoismo, il desiderio, lo struggimento, la noia. “Mi annoio talmente che piango senza sapere perché”, scrive nel ’38, Baudelaire; sono tenerissimi gli anni da scolaro, ma già brucianti di quel fuoco che vedremo nelle sue opere. Un fuoco rivoluzionario e non solo estetizzante, ricorda Montesano, l’unico che i lettori di oggi sembrano conoscere, attaccati ai miti di un decadentismo ornamentale, di costume. “L’èra del capitalismo digitale ci porta lontanissimi dai poeti perché ci dice che siamo tutti poeti”. Ma come si chiedeva Baudelaire: “Poeta, è un insulto o un complimento?”