Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini a pranzo negli anni Sessanta (LaPresse)

La tribù dei grandi

Sandra Petrignani

La seduta spiritica di Mario Fortunato che rievoca una società letteraria che non c’è più, ma che non smette di influenzarci

Il nome di Alice Munro non c’è verso di pronunciarlo come si deve. Non davanti a Mario Fortunato. Non c’è volta che lui non mi corregga. O lo pronuncio come si scrive e non va bene. Oppure tendo ad aprire troppo la u in una o, oppure viene fuori qualcosa che sembra il nome di Marlyn Monroe detto in francese. Insomma ogni volta Mario, che conosco da circa trentacinque anni, mi dice in automatico e con perfetta pronuncia inglese: “Aliss Munró: la o è accentata e la u è un po’ aperta, ma solo un po’”. Gli spiego che se provo a imitarlo mi sento un papero, e torno subito al mio “Munro” dove la o è accentata, e va bene, questo l’ho imparato, ma la u è proprio indubbiamente una u che non vira né verso la a né verso la o, e la erre (oddio, la erre) resta sulla mia lingua una erre normalmente italiana, senza aggrovigliamenti, arrotolamenti, masticate british di nessun genere.

 

L’ho fatta un po’ lunga per dire che finalmente, dopo tanti anni, ho capito che, dietro quella sua fissazione per la pronuncia corretta del nome, c’è un trauma. Un trauma che ha a vedere proprio con la scrittrice canadese, da lui amatissima. Un trauma così profondo che non me ne aveva mai parlato. Ma adesso ne ha scritto: nell’edizione ampliata, appena uscita, di Quelli che ami non muoiono (Bompiani, p.403, 15 euro), libro del 2008 dedicato agli incontri importanti della sua vita, soprattutto con scrittori, e alla cosiddetta “società letteraria” che ancora esisteva quando eravamo giovani noi e ora non esiste più, perché è “scomparsa quasi di colpo”. Ma insomma, fra i nuovi capitoli, ne ho trovato uno che s’intitola “Pronto, Alice Munro?” e sono corsa a leggerlo. È la storia di un malinteso, giustificato dalla premessa: “La gaffe per me è un magnete ineluttabile e trionfale – forse la vera vocazione della mia vita. Ne colleziono una quantità straordinaria che serbo nella memoria con incredula precisione” (confermo: Mario Fortunato anche con gli amici è spesso preda di quel che definisce un “dirompente meccanismo mentale che spinge a dire la cosa sbagliata nel momento sbagliato alla persona sbagliata”).

 

E quel che racconta in “Pronto, Alice Munro?” ha a che fare con tutto questo. Dunque, in un giorno molto caldo del 2009 la grande scrittrice (lei in persona!) chiama al telefono un ignaro Mario Fortunato, così impreparato a una simile eventualità da non prenderla in considerazione nemmeno di fronte all’evidenza. E non è che pensa a uno scherzo, no: lui pensa a un caso di omonimia! Dentro al telefono infatti sente la voce di una signora straniera anziana che ha avuto il suo numero da un’amica comune, anche lei canadese, e che gli parla in “un inglese squisito, semplice e chiaro”. Gli parla del fatto che sta per venire in Italia, a Milano, gli parla dell’amica comune che la ha indirizzata a lui e che purtroppo si è ammalata gravemente, gli elenca i pochi scrittori italiani che conosce (Calvino, Primo Levi, Moravia), gli dice anche – perché ormai chiacchierano amabilmente – che ha avuto due matrimoni…

 

Solo dopo un po’ Mario si rende conto di non sapere il nome della gentile straniera e glielo domanda. Già, non gliel’ho ancora detto, si scusa la misteriosa interlocutrice, “mi chiamo Alice Munro”. E Mario: “Monroe?”. No, dice lei, e gli fa lo spelling: “emme-u-enne-erre-o”. E il nostro gaffeur le chiede (proprio così): “Come la scrittrice?”. A questo punto la Munro comincia, è evidente, a divertirsi, e gioca sull’equivoco mettendosi a ridere: “Faccio proprio quello”, replica. E siccome anche dall’altra parte del filo c’è uno scrittore – uno scrittore italiano dal quale sa di essere molto apprezzata e al quale avrebbe voluto chiedere probabilmente di farle da chaperon, quando fra pochi giorni arriverà in Italia – s’interessa civilmente di lui. E si mettono a parlare dei libri di Mario e, da pari a pari, di editoria e di scrittura. “Che genere di libri scrive?”, arriva a chiederle lui a un certo punto, e lei sbrigativa: “Storie”. Si saluteranno senza darsi un appuntamento, perché le date dell’arrivo a Milano di lei e la partenza per le vacanze di lui purtroppo coincidono. Addio incontro con un idolo!

 

E a Mario, quando si accorgerà dell’errore, non resta che il pugno di lettere di un cognome, quel cognome che si ostina a pretendere sia pronunciato correttamente, così come l’ha sentito proferire dalla voce, non più giovane e molto “distinta”, della proprietaria, Aliss Munrò: la u un po’ aperta, ma solo un po’, mi raccomando. Chissà, magari meglio così, gli idoli sono spinosi a tirarli giù dal piedistallo. Mi consolai in questo modo, quando anche a me successe qualcosa del genere. Nel 1988, a Parigi, ho dato buca a Milan Kundera per una serie di stupidi equivoci. Una seconda possibilità lui non volle giustamente offrirmela, anche perché era in partenza. Magari, mi dissi, sarebbe stato un incontro terribilmente deludente… Non sempre, in effetti, conoscere di persona uno scrittore è un’avventura interessante. Uno ha lavorato così tanto di fantasia, ha confuso la verità della vita con la finzione letteraria, si è fatto un’idea tutta sua di un autore, ci si è rispecchiato in mille modi possibili… e poi, boom, quello mangia con le mani, è un vanesio insopportabile, oppure ti tratta a pesci in faccia o ti salta addosso (se sei giovane e carina).

 

C’è un caso del genere (genere pesci in faccia, intendo) in Quelli che ami, che mi lasciò sbalordita quando lessi il libro la prima volta e ora sono andata a rivedermelo. Si tratta anche qui di una grande scrittrice, Agota Kristof, che è capitato a me pure di conoscere. Ma le nostre impressioni, di Mario e mie voglio dire, sono risultate lontanissime, diciamo pure opposte. Lui intitola il capitolo addirittura: “Che antipatica, Agota Kristof”, e condivide con i lettori per filo e per segno e quasi minuto per minuto la sgradevole, imbarazzantissima colazione che fu costretto a consumare a tu per tu con lei in occasione di un premio letterario nel 1998. Io ero stata qualche anno prima a Neuchâtel, a casa della Kristof, per intervistarla, ed ero rimasta incantata dalla sua simpatica accoglienza, materna, protettiva, ciarliera… Con Mario, invece, una mummia, un’insopportabile nevrotica! Cosa le era successo nel frattempo? Mistero delle personalità complesse. Potrei andare avanti con gli aneddoti incrociati, le sliding doors della vita, i casi del destino che ti portano a fare quel determinato incontro o a perderlo per sempre.

 

 

Ma mancherei il vero senso del libro di Mario Fortunato che è in realtà non tanto una raccolta di ricordi, quanto una seduta spiritica. Per evocare cosa? “L’immagine di un mondo culturale e di una civiltà che stava tramontando, per lasciare il posto a ciò che solitamente chiamiamo in maniera impropria il presente”. Il presente in cui gli pare che “a quella civiltà letteraria e culturale non ne sia succeduta una nuova, migliore o peggiore”, il presente in cui “il dialogo fra le generazioni si è rotto”. Una società letteraria in cui si entrava quasi clandestinamente, per meriti puramente artistici, non sull’onda di uno strombazzamento editoriale o di una scalata alle classifiche (anzi, le classifiche erano guardate con ironico distacco).

 

Magari prima ancora di aver pubblicato un libro, soltanto perché un manoscritto era stato apprezzato da Calvino e poi passato alla Ginzburg, oppure per un racconto pubblicato su una rivista che suscitava l’improvviso entusiasmo di Giorgio Manganelli e da lui rimbalzava sugli altri della sua cerchia. Questo, e niente altro del resto, i giovani narratori e poeti che si affacciavano in quel mondo chiedevano ai rispettatissimi scrittori famosi: che li riconoscessero “come interlocutori, come nuove voci che si univano a quella conversazione al di là del tempo e delle mode”. Era proprio quell’ininterrotta conversazione che mancava terribilmente ad Alberto Arbasino quando, non molti anni prima che la sua bella mente cominciasse a oscurarsi in un precipizio che si chiama vecchiaia, mi confessò quasi con le lacrime agli occhi, quanto gli mancava la società letteraria di cui era stato un protagonista, forse l’ultimo, perché lui era il più giovane. “Se ne sono andati tutti troppo presto, e io sono rimasto solo, senza i miei amici, i miei interlocutori”.

 

Mi squadernò di ognuno l’età e l’anno della morte. Un tristissimo sorprendente elenco: nel 1975 Pasolini, ucciso a soli cinquantatré anni; Italo Calvino scomparso a sessantadue, nel 1985; nello stesso anno Elsa Morante a settantatré; nel 1990 Manganelli, età: sessantotto; la Ginzburg a settantacinque, nel 1991; e via così in una terribile danza funebre che lo rendeva sempre più triste. “Un’intera generazione spazzata via in pochi anni quando ancora avrebbe potuto dare tanto alla letteratura. E’ rimasto un vuoto…”, diceva. In un altro dei nuovi capitoli di Quelli che ami non muoiono lo ritrovo, Arbasino, “acuminato e isterico”, “coltissimo e meravigliosamente ingenuo” come lo descrive Fortunato che ben più di me l’ha frequentato. Ritrovo l’Arbasino che sapeva riassumere in un’idea festosamente corrosiva il male dei tempi come quando fotografò l’avvento del nuovo millennio: “Anni di smandrappo generale che hanno generato una classe dirigente Volta & Gabbana che non sa un accidente di niente”. E chissà, mi chiedo, nel generale smandrappo sempre più smandrappato quanti, di quelli che oggi non si possono perdere un David Foster Wallace o una Zadie Smith, hanno mai aperto un libro davvero geniale come Anonimo lombardo, “sublime, spaventosamente perfetto”? Ma tant’è.

 

Vada per la seduta spiritica che riporta sulla terra la fisicità di Lou Reed, incontrato per caso in ascensore e quasi quotidianamente dal nostro autore durante un soggiorno newyorchese (qualche volta persino in compagnia della mitica Laurie Anderson) e magicamente ritrovato dopo circa un decennio seduto in un baretto di Trastevere all’aperto. E qui il nostro ha il coraggio di importunarlo ricordandogli il famoso ascensore del West Village e Lou Reed, “un ometto un po’ raggrinzito” che la nostra generazione “aveva idolatrato” lo invita a sedersi e bere un caffè insieme. E vada per la seduta spirititca che richiama in vita altri personaggi, che tanto hanno contato nella storia personale e intellettuale della nostra generazione. Per esempio Alberto Moravia, al quale è dedicato uno dei ritratti più profondi e più belli del libro: “Tono assertivo. Voce e mani venate d’impazienza. Lì per lì sembrava dicesse cose scontate.

 

Col tempo immancabilmente scoprivi che era almeno due spanne avanti, per sottigliezza e sensibilità”. Per esempio Natalia Ginzburg, “chiara e assertiva, pur nella timidezza, e sempre molto parca… indifesa e selvatica… con quella sua aria di vecchia bambina”. Per esempio Manganelli, “miniera di informazioni stravaganti e sbalorditive”, uno scrittore capace di dire: “Il romanzo è un genere innegabilmente esecrabile, a meno che non si esibisca un linguaggio capace di distrarre dalla storia raccontata”, o anche con propensioni chiaramente beckettiane: “Il vincitore è pericoloso, non imparerà mai nulla dalla sua vittoria. Lo sconfitto, invece, è sempre più savio, più problematico, più pensoso, e alla lunga risulterà più civile. Direi che in generale l’importante è perdere. Bisogna stare molto attenti nei confronti della propria tendenza a voler vincere”. Per esempio Giulio Einaudi, detto il Divo Giulio, o meglio l’antidivo Giulio come giustamente lo ribattezza Fortunato, che illumina queste pagine come il sole a mezzogiorno ogni volta che fa la sua comparsa, e come del resto succedeva nella realtà.

 

Giulio Einaudi dai “bellissimi occhi celesti, l’espressione curiosa, un misto di ironia e sincerità”. Si dice che non leggesse mai un libro per intero, nemmeno di quelli che pubblicava lui. Eppure sapeva tutto ciò che conta e di libri e di scrittori parlava con cognizione di causa, mai sentita una sciocchezza da lui. Semmai qualche ironica cattiveria, ma condita con immancabile “eleganza, affetto, una curiosità assoluta e inesauribile”. Giulio che arrivava a cena portandosi il suo vino (suo nel senso che lo faceva a Dogliani nelle sue terre) e che a volte si metteva a cucinare, perché gli bastavano due spaghetti con le carote crude bollite insieme alla pasta (ma con tanto parmigiano e olio d’oliva doc). Giulio che aveva perso la sua casa editrice ma non mollava la presa e si affezionava alla nascente Theoria e dava consigli ai giovani che l’avevano fondata (fra gli altri l’adorato Malcolm Skey, che era stato in via Biancamano uno dei suoi consulenti e traduttori preferiti) e forse ritrovava in quella compagnia qualcosa della sua giovinezza, quando aveva creato la sua Einaudi con quattro soldi e in una soffitta anche per dare una casa al grande amico Leone Ginzburg.

 

Si sente, nella pagine di Quelli che ami risuonare la sua voce nasale, luccicare il suo sguardo. Senti il pungolo delle sue dita sulla spalla che ti richiamano all’ordine se ti sei distratto da lui: “Che fai, mi snobbi?” o lo squillo del telefono in orario antelucano con dentro la famosa voce: “Che fai, dormi?” E quando al ristorante, con una Ginzburg sempre sonnecchiante che, dice Mario, “faceva l’impressione di essere la sua fidanzata abbandonata”, lui si sporgeva per infilare la forchetta nei piatti degli altri e assaggiare quel che non aveva ordinato. Un giorno – è diventato leggenda – fece lo stesso immancabile gesto con Manganelli, che non gradì e “circondò il piatto con tutte e due le braccia, come per difenderlo da un barbaro nemico” intimando: “Giù le mani dal mio truogolo!”. Del resto, infatti, non è che si parlasse sempre di letteratura o dei massimi sistemi con questa gente.

 

Eppure avevi l’impressione di nutrirti continuamente, sia ti dicessero della loro infanzia o di un film che avevano visto o di quel che s’era mangiato a pranzo. Semplice nostalgia? Venerazione giovanile? Non credo. Condivido piuttosto, con Mario Fortunato, il senso di perdita per la tribù e per un sistema di passaggio da una generazione all’altra (prendo la citazione da un capitolo affettuoso e straziante su Daniele Del Giudice), passaggio di “interpretazioni e chiavi di accesso” verso il mondo cui si aspirava. Un mondo imperfetto e arbitrariamente selettivo anche, ma che è impossibile non rimpiangere quando al suo posto regna sulla cultura un altro arbitrio, ben meno nobile e controllabile, quello dei Grandi Poteri Sinergici giornalistico-televisivi, pubblicitari e commerciali.

 

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