L’opera “Salome” di Richard Strauss, in scena alla Scala sabato 20 febbraio 2021 per la direzione di Zubin Mehta e la regia di Damiano Michieletto (foto La Scala) 

il foglio del weekend

Ossessionati da Salome

Fabiana Giacomotti

È da sempre una figura inafferrabile, tra il pudore e la spudoratezza, tra il maschile e il femminile. Scandalizza e affascina. L’opera di Richard Strauss basata sul dramma di Oscar Wilde rivive alla Scala

A Oscar Wilde, i disegni a china di Aubrey Beardsley per l’illustrazione del dramma Salome piacevano fino a un certo punto. Pur riconoscendone il valore artistico (dopo aver visionato la prima tavola, gli aveva scritto un biglietto: “Marzo 1893. A Aubrey. Il solo artista che, oltre a me, sappia che cosa sia la danza dei sette veli, e possa vedere quella danza invisibile”) una volta completata l’opera li aveva giudicati di stile eccessivamente giapponese, e dunque in contrasto con il tratto “bizantino” del suo dramma, che guardava, come era da aspettarsi, a tutto il ventaglio dispiegato dell’estetismo: dai gioielli dell’Hérodiade di Mallarmé ai dipinti di Gustave Moreau collezionati però dal Des Esseintes di Huysmans alle Moralités di Laforgue.

  

La toeletta di Salomè in un'illustrazione di Aubrey Beardsley, dall'edizione originale del dramma (Wikipedia) 
  

Se, come osservava Remy de Gourmont, l’ideale di Wilde era “la religione d’arte”, Beardsley si spingeva un tantino troppo in là, finendo per contaminare la purezza “lunare”, la verginità ieratica, di cui lui aveva cercato di ammantare la figura della principessa. Dal suo punto di vista, Wilde aveva ragione, ma ancor più aveva ragione Beardsley e per ragioni di contemporaneità che, per una volta, sfuggivano all’autore della Salome: in quegli stessi anni, anzi in quegli stessi mesi, Sigmund Freud andava codificando a Vienna la sua interpretazione dei sogni, e la teoria dell’inconscio con cui avrebbe sconvolto per sempre il nostro rapporto con noi stessi era già tutto lì, in quei tratti nerissimi, incantati e torbidi, di ermafroditi, di mostri, di volti mascherati e ghignanti

   
La seduzione primigenia, viscerale, l’attrazione per l’ambiguità sessuale, l’ombra rivelata dell’incesto, l’innominabile tabù di ogni società umana (e di cui era stato velatamente accusato lo stesso Beardsley nei confronti della sorella Mabel), non si trovavano di certo nelle foto delle donnine in culotte che i gentiluomini tardo-vittoriani ricevevano incartati e profumati come strenna natalizia del barbiere e dei teatri alla moda, ma nel volto maschio e immoto della Salome di Beardsley, che anche oggi non sembra nemmeno baciare la testa mozzata del Battista, ma quella della Medusa uccisa da Perseo. Wilde, insomma, aveva ragione di temere quell’amico che era perfino più eccentrico di lui, uno che a vent’anni (sarebbe morto a ventisei) aveva dichiarato di voler perseguire “il grottesco”, e che senza quello non “sarebbe stato niente”, perché la sua interpretazione è quella che ancora oggi ossessiona la regia teatrale, la moda e anche tutti noi.

     

Nulla è rimasto delle tante, innocenti Salome medievali, meri agenti degli intrighi materni oppure utili strumenti del martirio del Battista (nei decori d’argento a sbalzo dell’Arca detta “delle ceneri di san Giovanni Battista” conservata nel Museo del Duomo di san Lorenzo, a Genova, e datata al tardo Millecento, si scorge una ragazzina dal volto liscio e fresco che danza aggraziata di fronte a un’assise di vecchi dal volto inciso di segni e rughe che manco Dorian Gray). La Salome che ancora turba il borghese, l’animale scandalizzabile per eccellenza, come diceva il nostro amato Mario Bortolotto, è quella assimilabile alla belle dame sans merci che dalla seconda metà dell’Ottocento si incarna via via nella femme fatale, nella vipera-vipera-sul-braccio di-colei, insomma nel kitsch da futuro peplum hollywoodiano tutto garze, costume jewellery in pasta di vetro e Rite Hayworth col Victor Mature di turno dall’espressione istupidita disteso ai suoi piedi. Ma la nostra Salome, la Salome di oggi, è soprattutto la bambina dall’identità sessuale sfuocata dei desideri inconfessabili che, come ci dicevamo l’altro giorno con Quirino Conti, diventa l’incarnazione di quella ambivalenza fra pudore e spudoratezza, fra maschile e femminile, che è alla base di ogni seduzione infantile e dell’ossessione che il mondo adulto, perlopiù maschile, prova per lei

    
Nell’intersezione fra questi due mondi e queste due visioni – una più modaiola e pop, una più torbida – si è collocato il regista Damiano Michieletto con una lettura da “Speciale Quarto Grado” della Salome di Richard Strauss che abbiamo visto l’altra sera al Teatro alla Scala fra i fortunelli invitati a distanziarsi nella seconda galleria. Non sappiamo perché nessuno abbia colto la contraddizione fra la lettura essenziale della figura della principessa di Giudea che dà Wilde, quasi in contrapposizione ascetica col Battista e che ovviamente giustifica anche l’ossessione che Erode prova per la sua purezza (non diversamente da molti altri personaggi biblici per schiere di vergini e dalle pratiche ancora in uso presso certe società tradizionali), e Michieletto che l’ha trasformata in una vittima di abusi multipli, togliendole dunque forza e senso, ma insomma. Nell’accettazione rassegnata che nell’ascolto di un’opera magnifica rientrasse anche la semplificazione da cronaca televisiva di prima serata, ci siamo goduti alla grande l’effetto musicale dell’orchestra dispiegata sulla platea, che regalava un effetto immersivo mai sperimentato prima neanche da quella postazione così perfetta per i filologi del suono. 

   

    

Ci è piaciuta molto la scenografia, perché attingeva senza remore a tutto quanto è già stato detto e fatto sul tema. Nell’ordine: la celeberrima “Apparition” di Gustave Moreau (per intenderci: la testa del Battista inscritta in un surreale ostensorio che appare a Salome atterrita e che nel romanzo “A Rebours” era catalogata fra le proprietà del protagonista Des Esseintes). Quindi. La rilettura in chiave contemporanea delle stesse note di regia di Oscar Wilde, ovvero la scena perfettamente spoglia, che ai suoi tempi era un’anticipazione del teatro dell’assurdo e che prevedeva, come unico elemento mobile, una luna di colore cangiante come elemento temporale e metafisico: Paolo Fantin l’ha trasformata in una sorta di grande pendolo di Foucault modello sfilata Gucci uomo inverno 2021, al punto che per un istante abbiamo pensato irrompessero in scena anche le note del valzer di Shostakovich che oltre un anno fa accompagnavano gli abiti e che, guarda caso, rappresentavano un viaggio a ritroso nei fantasmi dell’infanzia. E con questo, volendo sorvolare sulle smanacciate di terra buttata qui e là dal Battista a memento della coscienza sporca della Erode family e sulle sedie rovesciate del banchetto che “fanno” più disordine morale di una sedia dritta sulle quattro gambe, abbiamo detto tutto sulla scenografia. 

   
Abbiamo apprezzato moltissimo i costumi disegnati da Carla Teti che uscivano dalle mani e dalla sapienza tecnica del più grande sarto teatrale ancora attivo, Gabriele Mayer, cresciuto alla scuola di Piero Gherardi e di Federico Fellini, ma che molto si ispiravano anche alla moda surreale-pop di Viktor&Rolf e del Jeremy Scott di Moschino. In particolare, abbiamo apprezzato lo straordinario vestito simbolico della presa di coscienza di Salome: un modello anni Cinquanta bianco, rigido, che si allargava in scena per mezzo di decine di fili di lana rossi, lunghi e ferali come rivoli di sangue. Nonostante il sempiterno richiamo generale allo stile formale anni Trenta della “Caduta degli dei” di Piero Tosi quando c’è da mettere in scena la dissoluzione sanguinosa della borghesia, e lo scivolone degli angeli della morte in slippone color carne e le ali nere presi pari pari dal “Pornocrates” di Felicien Rops, mascherina di seta compresa (già ai suoi tempi l’illustrazione venne giudicata troppo didascalica ed estetizzante, figuratevi adesso), i costumi erano l’unico elemento di vera novità dello spettacolo, anche perché il più difficile da trattare e fonte di molti grattacapi per lo stesso Wilde al momento del difficile debutto teatrale del suo dramma. Quell’abito bianco creato da Teti e l’affiorare dei presunti ricordi di abuso e violenza di Salome bambina progettati da Michieletto (“io non parlo di idee, io lavoro per progetti” il refrain), ci ha risparmiato infatti la danza dei sette veli, che in altre occasioni fu motivo di vero imbarazzo per la volgarità di cui non riesce mai del tutto a liberarsi e che era appunto alla base della premessa della Salome monacale di Wilde, l’uomo per cui il mondo era una continua espressione di volgarità. Sul “pavimento nero” proposto dallo scenografo Charles Ricketts “per far risaltare i piedi candidi di Salome”, cioè i piedi di Sarah Bernhardt che a cinquant’anni suonati era molto lusingata di interpretare una quindicenne e che infatti aveva accettato di finanziare lo spettacolo, salvo cambiare idea allo scoppio delle polemiche e della censura in Inghilterra, tutti volevano costumi sontuosi ed eleganti. 

  
Sì, ma come dovevano essere questi costumi? Neri come la notte? Argentei come la luna che secondo l’autore era la vera protagonista del dramma? Benché anche “i romani e gli ebrei” necessitassero di costumi adeguati (mostrando inaspettatamente un certo penchant per quello che oggi definiremmo degli stereotipi, Wilde suggerì che gli ebrei fossero vestiti di giallo, i romani di rosso, e Giovanni Battista di bianco), il costume di Salome impegnò tutti per settimane. Wilde pensava a “una veste verde scintillante come una lucertola curiosa e velenosa”, facendo leva sulla simbologia ambigua del colore e sulla sua adozione da parte della comunità omosessuale dell’epoca. Ricketts voleva che la luna cadesse in palcoscenico, Wilde insisteva per una “strana luce tenue nel cielo”. Nel dibattito si intromise il pittore Graham Robertson suggerendo un cielo viola. “Sì”, fece eco Wilde: “Non ci avevo pensato. Cielo viola e in luogo dell’orchestra bracieri di profumi”. La Bernhardt decise di mettere fine a tutte quelle manfrine, a partire dai profumi che l’avrebbero soffocata, e affittò le scene da Irving, compresa un po’ di paccottiglia da Cleopatra che, insieme con la brassière in metallo e pelle dorata, una lunga gonna “ornata di frange dorate” disegnata da Robertson, e i capelli coperti di cipria azzurra (“ma è Erodiade a dover avere i capelli azzurri”, obiettò Wilde: non l’ebbe vinta) avrebbe dovuto costituire il pezzo forte del look e accompagnarla nella danza che, ça va sans dire, voleva interpretare personalmente. Andò a finire come si sa, cioè con la diva in ritirata strategica; il costume venne indossato da Wilde nella celebre foto en travesti con la lunga parrucca a riccioli e un accenno di tette, madame Salome c’est moi, mentre si china su un bacile occupato da un ammasso informe di cera e capelli.

 

L’immagine è grottesca, ma non dissimile da quella di infinite schiere di Salome di sesso femminile che l’hanno seguito, forse a dimostrazione che la principessa di Giudea ideale è quella narrata dagli evangelisti, e cioè un motore del destino che non ha nome, non ha età precisa e dunque neanche un’identità sessuale ben definita, pur conservando una potentissima carica sensuale che la danza, danza dionisiaca, scatena in chi la osserva. Dopotutto, ci fa notare Conti mentre proviamo a lambiccarci su questa inafferrabile figura, anche Caligola doveva presumibilmente il proprio soprannome all’abitudine, in età adolescenziale, di danzare nudo, fatte salve appunto le calzature o caligulae, per i soldati del padre generale, per quali scopi possiamo solo desumerlo ma rischiando di non sbagliarci. 

 
Le emozioni suscitate dalla danza di un corpo giovane, elastico e sodo non hanno certo bisogno di spiegazioni, e neanche di una definizione di genere, quindi non possiamo stupirci più di tanto se periodicamente, nelle collezioni di moda, in teatro, emergono Salome che alternativamente possono ricordare una ginnasta o un efebo, e tutte sono ugualmente valide. 

 
Qualche anno fa, in una delle collezioni più discusse, sempre Gucci fece sfilare in una sala operatoria scientificamente ricostruita una serie di “persone”, cioè maschere, ornate di catene e pendagli che Robertson non avrebbe affatto disprezzato. Raccontavano la ricerca umana di una dimensione confacente al proprio sentire e al proprio essere più intimo. Insomma, parlavano di identità. Era, come certamente ricorderete, la sfilata in cui i modelli portavano sotto il braccio la replica mozzata della loro testa.

Di più su questi argomenti: