Rodolfo Valentino morì il 23 agosto del 1926 a Manhattan (foto tratta da "The Divo and the Duce" di Giorgio Bertellini, 2019 California University Press)

Il Paradosso

Il divo e il duce

Giorgio Bertellini

Le vite parallele di Rodolfo Valentino, che celebrava il mito dell’uomo solo al comando, e di Benito Mussolini, che lo interpretò

Incantò le platee americane per cinque anni, dall’inizio del 1921 all’estate del 1926, quando un male improvviso se lo portò via giovanissimo. Raffinato e narcisista, Rudolph Valentino (nato Rodolfo Guglielmi a Castellaneta, nel foggiano) faceva spesso notizia per i suoi litigi con produttori, registi, la prima moglie e giornalisti che ne mettevano in dubbio la virilità. La morte cancellò queste controversie. Di lì a poco il cinema americano non sarebbe stato più muto. Nessuno può dire se l’attore italiano sarebbe sopravvissuto alla rivoluzione del sonoro. Sarebbe però un errore pensare che la novità e l’impatto culturale di Valentino si esauriscano alla sua morte o l’anno dopo, nel 1927, alla fine del muto.

 

Iniziò tutto cent’anni fa, il 6 marzo 1921, giorno della premiere a New York de I quattro cavalieri dell’Apocalisse. A dirigerlo è Rex Ingram, un regista ambizioso, non notissimo. C’è però molta attesa. Il film porta sullo schermo il romanzo omonimo di un autore di fama internazionale, lo spagnolo Vicente Blasco Ibáñez. Pubblicato in Spagna nel 1916, tradotto in inglese nel 1918, il romanzo denuncia il militarismo imperante della Grande Guerra. È un bestseller mondiale. A sceneggiarlo è la stimatissima June Mathis, probabilmente la donna più potente di Hollywood del momento. Nelle settimane precedenti la premiere, la stampa non dice granché di Valentino. A Hollywood lo conoscono solo come attraente giovane italiano dal nome difficile e sempre diverso (De Valentino, di Valentino, De Valentina). Dopo quel giorno di marzo, però, cambia tutto, e non solo per lui. All’uscita del film, le recensioni dei giornali americani ne elogiano la regia e la scenografia. Parlano bene anche degli attori. Soprattutto menzionano Valentino, che interpreta il ruolo del giovane franco-argentino Julio Desnoyers.

 

Il romanzo non lo poneva al centro della storia, preferendogli il padre francese, emigrato in Argentina per sfuggire al servizio militare, e un mistico russo che fa da perno morale della storia. Mathis ridisegna il ruolo di Julio e trasforma una scena di tango, collocata a metà romanzo, nella scena madre del film, posta all’inizio e ambientata non a Parigi, ma in una locanda plebea di Buenos Aires. È un cambiamento decisivo. Il personaggio di Julio acquista una parabola nobilitante da esotico ballerino seducente e libertino a martire romantico, disposto ad arruolarsi e morire da patriota per ritrovare se stesso e il rispetto dell’amata. Alla prima newyorchese partecipano celebrità del mondo del cinema come la sceneggiatrice Anita Loos e il produttore Adolph Zukor, ma anche figure estranee al mondo di Hollywood, inclusi gli ambasciatori spagnoli e argentini, il presidente della Columbia University, Nicholas Murray Butler e persino un giovane Winston Churchill.

 

 

La campagna pubblicitaria sfrutta il successo editoriale del romanzo, ma dà grande risalto a Valentino: i manifesti e gli slogan promozionali si concentrano sulla scena del tango. Le recensioni parlano raramente dei rapporti fra film e romanzo e anche quando accusano Mathis di aver sminuito il messaggio antimilitarista del libro, si concentrano sul nuovo divo cominciando sempre dalla scena del ballo. Il tango era di moda a New York fin dagli anni Dieci, ma con I quattro cavalieri tutti poterono apprezzarne da vicino “il calore primitivo della passione”, come scrisse la rivista Motion Picture News. Qualche settimana dopo in un articolo intitolato “A Latin Lover” il recensore della rivista Photoplay salutava l’arrivo di Valentino come la star che il mondo attendeva, il “suo eroe continentale, lo straniero raffinato, il moderno Don Giovanni”. In Italia il film uscì un po’ in sordina fra la fine del 1922 e i primi mesi del 1923.

 

Le recensioni furono positive, qualcuno menzionò Valentino, ma nessuno parlò di film-evento. In America, invece, la celebrazione del fascino esotico ed erotico di Valentino rappresentò una novità significativa e non solo per la cultura cinematografica. Non tutti se ne accorsero: la stessa casa produttrice del film, la Metro Pictures Corporation, non la sfruttò appieno. Impiegò Valentino in ruoli troppo fragili nei tre film successivi (Uncharted Seas, Conquering Power e Camille). Valentino riprese e superò il successo de I quattro cavalieri con il passaggio alla Paramount e il ruolo da protagonista in Lo Sceicco (novembre 1921), adattato da un torrido e popolarissimo romanzo erotico del deserto. Ma cosa iniziò con il suo successo? Le storie del cinema parlano spesso di una sprovincializzazione dell’Olimpo hollywoodiano insistendo che Valentino era la prima star hollywoodiana nata fuori dagli Stati Uniti. L’eccezione di Mary Pickford è un precedente parziale: nata a Toronto (Canada), dagli esordi appare a molti come americana e nel 1917 venne addirittura battezzata la “fidanzatina d’America”.

 

Manuali di cinema a parte, per cominciare a scoprire la vera novità di Valentino bisogna rileggersi le interviste che l’attore italiano concesse a riviste come Motion Picture Classic alla fine di quel 1921 per lui fondamentale. Firmate dal suo primo pubblicista, il giornalista Herbert Howe, le interviste contenevano le opinioni controverse di una star del cinema opinionista politico. A rigore Valentino non era la prima star cinematografica ad assumere un profilo politico pubblico. Durante la Grande Guerra la stessa Mary Pickford, insieme al futuro marito Douglas Fairbanks e ad altri, aveva appoggiato apertamente l’intervento americano partecipando alla raccolta di fondi per lo sforzo bellico. Ma nel 1921 non c’era una guerra in corso. C’erano invece fortissime tensioni politiche legate all’impatto internazionale della rivoluzione sovietica, agli scioperi giornalieri, ma anche alla novità del diritto di voto concesso alle donne grazie alla ratifica del diciannovesimo emendamento (1920). In questo contesto Valentino si pronunciò sui danni della democrazia e della parità fra generi. Fece di più: mise sullo stesso piano polemico il caos dei governi democratici (stigmatizzati come “bolscevic”) e l’espansione del suffragio per celebrare il valore di una leadership autoritaria nella sfera pubblica come in quella privata.

 

“In America la democrazia è stata portata a casa e se ne vedono le conseguenze”, scrisse nel dicembre del 1921 difendendo il principio d’ordine della monarchia, “Ogni nazione, ogni stato, ogni famiglia ha bisogno di un leader. L’eguaglianza non esiste. La donna non è uguale all’uomo”. Si noti che sono dichiarazioni fatte prima dell’ascesa di Mussolini, di lì a poco notissimo in America per parole e azioni molto simili. Se utilizziamo parametri contemporanei di giudizio, che questo tipo di dichiarazioni non scalfissero la fama di Valentino non può che apparire paradossale. Se invece proviamo a storicizzarle, bisognerà tener conto di altri fattori. Dovremo presumere una differenza generazionale fra le giovani fan di Valentino e le donne più mature che per anni si erano battute per diritto di voto. Ma dovremo anche ipotizzare che invece di leggere le esternazioni di Valentino attraverso il paradigma dello straniero come problema, sarebbe più opportuno considerarle in termini di opportunità. Valentino poteva formulare opinioni apparentemente controverse perché nessun altro aveva il coraggio di farsene carico. Per esempio, dovremo presumere che il suo sostengo per una leadership audace fosse letto più come un attacco al conformismo della società di massa che come una critica alla forma istituzionale della democrazia.

 

Le stesse dichiarazioni a favore di una mascolinità autoritaria non erano necessariamente recepite come espressione di una misoginia atavica, ma come un invito al riconoscimento del desiderio femminile, finalmente libero di esprimersi nello spazio pubblico dei cinematografi e in quelli della stampa nazionale. Dozzine di recensori, uomini e donne, sottolineavano come i suoi personaggi sembravano legittimare fantasie inconfessabili per un latin lover che, dietro l’immagine del conquistatore rude e appassionato nascondeva quella del partner romantico. Un’intera industria pubblicistica appoggiava questa nuova incarnazione, esotica e autoritaria, della fama popolare. Come si è detto, Mussolini avrebbe goduto di un trattamento non dissimile da parte dell’opinione pubblica americana. Pochi giorni dopo la conclusione della Marcia su Roma, per esempio, l’Ambasciatore americano a Roma, Richard Washburn Child, lo celebrava come un “genio spartano”.

 

Sempre nel 1922, il New York Herald salutava il quarantenne Mussolini come “rigeneratore della nazione italiana”. Il settimanale Time insisteva sulla sua capacità di imporre ordine ad una nazione altrimenti indisciplinata. La sua figura pubblica sembrava contraddire i vecchi pregiudizi americani sugli italiani come allegramente nullafacenti. Dopo l’omicidio Matteotti, di fronte a un’opinione pubblica sconcertata dai metodi antidemocratici del regime, il più venduto settimanale americano, il Saturday Evening Post, sostenne che malattie gravissime richiedevano cure eccezionali. La celebrazione del Duce era per molti una difesa contro il rischio di una degenerazione bolscevica in Italia. Ma quest’argomentazione non spiega di per sé come fosse possibile che Mussolini diventasse non solo un noto leader politico, ma anche una celebrità, cioè un protagonista della cultura di massa. Ed è qui che la figura del Duce incrocia quella di Valentino.

 

I mass media diedero un contributo fondamentale alla promozione di biografie più o meno romanzate di Mussolini. Se le testate più accreditate si limitavano a politicizzarne la virilità, quelle più popolari la pubblicizzavano in termini sensuali. Nel giro di poco tempo i profili celebrativi abbondavano nelle riviste di intrattenimento come in quelle politiche. Nel 1925 la famosa biografia mussoliniana di Margherita Sarfatti usciva in America un anno prima della sua pubblicazione italiana. Nel 1927, dopo averlo incontrato Mussolini a Roma, la già citata sceneggiatrice Anita Loos ne scrisse con ammirazione sull’Herald Tribune. Nel 1927, i coniugi Mary Pickford e il Douglas Fairbanks non esitavano a mostrarsi pubblicamente entusiasti dell’autorità maschile del Duce, memori del loro incontro personale a Roma l’anno prima. Riviste come Liberty Magazine attribuivano a Mussolini il fascino del grande seduttore dallo sguardo magnetico. All’inizio anche Valentino voleva incontrarlo. Durante il suo unico viaggio in Italia nel 1923, cercò invano di ottenere un’udienza. Le cose si complicarono nel 1925, quando corse voce che Valentino voleva diventare cittadino americano per pagare meno tasse. In un momento in cui la doppia cittadinanza era illegale, rinunciare a quella italiana era per molti un sacrilegio. In Italia boicottarono i suoi film.

 

In America, a detta di Valentino, gli uomini di Mussolini cominciarono a perseguitarlo. L’attore pubblicò una lettera indirizzata a Mussolini negando di aver mai voluto rinunciare a essere italiano. Nel frattempo, mentre Valentino era un’affermata star dei film di finzione e il duce spopolava come “re dei cinegiornali”, la stampa popolare si divertiva a pubblicare caricature immaginando una loro agguerrita competizione professionale. Solo la morte parve riavvicinarli. All’esterno della sua camera mortuaria a New York, due camicie nere vennero fotografate con una corona di fuori con l’iscrizione “Da Benito Mussolini". Anche quella era una messa in scena pubblicitaria. Il Duce non aveva mai ordinato quel gesto, voluto invece da un ufficiale della marina italiana in missione a New York che voleva strafare.

 

Dopo la morte di Valentino, il Duce continuò a essere protagonista di operazioni cinematografiche. Oltre ai filmati dell’Istituto Luce che le compagnie americane di cinegiornali acquistavano per rimontarle con i materiali più diversi, Mussolini recitò se stesso in un mediocre film di finzione, La città eterna (1924). Rimase molto più soddisfatto da The Man of the Hour (1927), il primo cinegiornale sonoro della Fox. Girato a Villa Torlonia, la residenza privata romana di Mussolini, il cinegiornale consentiva agli americani di sentire per la prima volta la voce del Duce. Pronunciando parole oggi tristemente famose, Mussolini lodava il fatto che gli immigrati italiani contribuissero a “far grande l’America” (“Make America Great”). Come il Duce sapeva bene, la campagna promozionale che lo descriveva come la prima personalità storica protagonista di un cinegiornale sonoro distraeva l’opinione pubblica dai crimini della sua dittatura. A distanza di un secolo, il paradosso della popolarità mediatica di Valentino e Mussolini non ci è sconosciuto e non può che preoccupare, anche se giudicare non significa capire e capire non significa assolvere.

 

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