Il Pci di Fabrizio Rondolino

Maurizio Stefanini

A cento anni dalla fondazione del Partito comunista italiano Rizzoli pubblica un racconto per immagini firmato dall'ex cronista politico dell'Unità (448 pp., 23 euro)

A 100 anni dalla fondazione del Pci, i suoi 70 anni di storia rivissuti attraverso le tessere. E non solo quelle del Pci e dei suoi eredi: nel libro c’è infatti un campionario anche di altre tessere di partiti più o meno riconducibili alla tradizione socialista, proprio perché era stato il socialismo a farne una versione laica dei santini usati dalla Chiesa per veicolare i valori cattolici. Ereditando questa tradizione il Pci la aveva portata a livelli di arte grafica elevata, con la collaborazione di grandi artisti come Renato Guttuso. E nella festa variopinta di queste immagini ci sono poi anche manifesti elettorali, foto, testate di giornali, cimeli.

 

“La mia prima tessera è del 1977: avevo sedici anni”, ricorda Fabrizio Rondolino. Cresciuto nella “macchina” del Pci fino a diventare cronista politico dell’Unità, lui stesso ha ammesso che divenne famoso perché raccontava tutto di situazioni, luoghi e persone a cui come giornalista del partito aveva libero accesso, con l’evidente sottinteso che poi non si sarebbe messo a spifferarlo. Anche il racconto storico accurato che accompagna le immagini è dunque infarcito con un gusto del pettegolezzo delizioso, che fa da antidoto a ogni tentazione retorica. Cominciando con sé stesso: “Un giorno, non sapendo dove appartarmi, portai la mia fidanzatina in sezione, di cui da qualche mese avevo ricevuto con orgoglio copia delle chiavi. Fummo sorpresi dal segretario, che era salito a prendere dei manifesti”. Ma c’è pure Togliatti che manda letterine d’amore a Nilde Jotti e ammette con Lajolo che al suo posto Gramsci non avrebbe coperto le purghe staliniane come aveva fatto lui, ma si sarebbe fatto ammazzare. O Berlinguer che gioca a pallone col figlio, mette scarpe scompagnate e perde banconote nei libri. O Natta che sconvolto per la caduta del Muro di Berlino commenta con un delirante “ha vinto Hitler”.

 

“Col senno di poi, e mi fa un po’ fatica dirlo, i socialisti non avevano ragione soltanto nel 1921, ma anche nel 1984”, ammette Rondolino. Eppure, insiste a spiegare che aver partecipato al Pci fu comunque una esperienza “emotiva e culturale, umana e psicologica”, perfino “etnica e antropologica” irripetibile. “Una grande comunità autosufficiente” che non diventava una setta “proprio perché era grande”. Un partito capillarmente organizzato, di cui arrivò ad avere la tessera il 5,2 per cento degli italiani maggiorenni, con cellule, sezioni, giornali, radio, tv, casa editrice, librerie, un centro studi, l’Udi per le donne, i Pionieri per i ragazzi, le cooperative, l’Arci per il divertimento, l’Uisp per lo sport, l’Unipol per assicurare, la Cgil, le feste. Era la lezione gramsciana: “Anziché prendere il Palazzo d’Inverno, come avevano fatto i bolscevichi, bisognava uscire per strada e convincere la gente”.

 

Il tesoro di immagini qui riprodotto era parte importante di questo sforzo. Ma fu una esperienza che, prima ancora del finale collasso del blocco dell’Est, fu lo stesso Berlinguer a liquidare. “Se c’è un’eredità comunista nella politica italiana di oggi, è quella del secondo Berlinguer, del Berlinguer che brandisce la diversità come arma finale, insieme identitaria e contundente. L’ondata di qualunquismo, di populismo, di giustizialismo – parole che indicano un unico fenomeno: l’abdicazione della politica, la sua rinuncia alle ragioni per cui è nata: educare il popolo, trovare un accordo con l’avversario – è la figlia illegittima e snaturata della predicazione berlingueriana sulla questione morale”.

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