L'autobiografia di E. Waugh, senza ansia per il futuro né nostalgia del passato

Marco Archetti

Il racconto di un'epoca, forte di una convinzione: sarebbe uno spreco usare la macchina del tempo per scoprire quel che ci sarà. "La più noiosa delle aspettative!"

Che fine hanno fatto le zie zitelle? “Conosco molte donne non sposate che hanno trovato l’indipendenza in una cerchia sociale. Ma zia zitella, nel significato autentico, implica qualcuno che rimane parte integrante della famiglia. Ero molto legato a loro”.

     

 

Parte da questa considerazione, che oggi genererebbe una saga di furiose reprimende su Twitter – tuttavia non perdiamo la speranza: esiste, da qualche parte, una statua di Evelyn Waugh? – la sua “Autobiografia di un perdigiorno” (Bompiani, pp. 364, euro 28). Pubblicato per la prima volta in Italia, è un testo felicemente ibrido e iridato di sfumature, che esala sherry e lieta dissolutezza, che racconta di fumoir e di giardini d’inverno, di Oxford e di una Londra in cui ancora “abbondavano le stravaganze”. Un po’ autoritratto e moltissimo racconto di un’epoca, è forte di una convinzione: se fosse possibile usufruire della macchina del tempo di H.G. Wells sarebbe uno spreco mettere il naso nel futuro come fa l’eroe del libro. “Il futuro: la più noiosa delle prospettive! Io, su quel sellino, avrei selezionato Indietro Piano”, lo contraddice Waugh. E gli si dà ragione dopo poche pagine, ritrovandosi nel bel mezzo di un mondo vivo e ricco di tutti gli arredamenti e le stoffe, i colori e le frasi, le figure e le zie – oh, quante zie! – un mondo evocato come se la memoria fosse il Genio di una lampada capace di rimettere insieme ciò che ormai è infranto, e di reinventare storie individuali così come quella di un’intera epoca.

 

Epoca di cui Waugh vede il tramonto. “Lento ma ineluttabile –  scrive  – il XX secolo si infiltrò. I velluti lasciarono il posto al cintz, il gas alla luce elettrica; l’acqua divenne corrente e le pompe arrugginirono; l’accumulo di mensole, tavolini e porcellane venne disperso; i muri, denudati dalle vecchie carte e dipinti. Gli orologi si fermarono e le loro basi in bronzo, in marmo o placcate d’oro, vennero sostituite. Zia Elsie decise che gli uccelli impagliati e le farfalle sotto vetro non fossero più di buon gusto e spostò tutto nello stanzino buio”. Ma non è lo stanzino buio, questo libro. E non solo perché da Evelyn Waugh non ha senso aspettarsi miagolii nostalgici (inutile, tanto non verranno), ma perché tutto è talmente vivo, tutto va così verso la vita, che solo di quella si seguono le tracce. Di quella, e di ciò che il tempo ha portato con sé: girandole di persone e di feste che impazzano, di oggetti e di mode che avanzano, di onde che rincorrono, di guerre e di scuole, di uomini e di donne, di “calessini che scompaiono mentre una Morris a due posti prende il loro posto”.

 

Vivissimi anche i ritratti, un mazzo di soli jolly: quello dei familiari compresi gli antenati, certo, ma soprattutto quello dei colleghi studenti oxfordiani e della morosa del fratello, Barbara Jacobs. Agnostica piena di fede, socialista convinta e femminista naturale, di lei Waugh scrive: “Finché non la conobbi, zie zitelle e preti anglicani erano i miei idoli. Con Barbara entrai in una nuova èra”. In un capitolo bellissimo le rende il sacrosanto omaggio, e noi con Waugh, perché sappiamo benissimo quanto nelle nostre vite a un certo punto irrompano persone decisive che ci svegliano a nuova vita, che dividono le acque davanti ai nostri occhi.

 

Non capita tutti i giorni, anzi. “E’ stato un destino della mia vita quello di amare persone che non erano brave a scrivere lettere”, ammette sul finale Evelyn Waugh. Poi ci racconta un capitolo intero di fallimenti. E, in due righe, una forma di solitudine e molti insani pensieri. Ma anche lì, insuperabile classe: non fiori, ma versi di Euripide.

Di più su questi argomenti: