Olivia Colman è la Regina Elisabetta in The Crown (Netflix) 

Spazio okkupato

La Regina in scena

Giacomo Papi

Realtà, fiction e rappresentazione della sovranità: la postilla chiesta a Netflix, e negata, su “The Crown”

    Il ministro della Cultura britannico, mister Oliver Dowden, ha chiesto a Netflix di indicare chiaramente all’inizio di The Crown, il serial che narra la vita di Elisabetta II d’Inghilterra e dei suoi congiunti, che trattasi di un’opera di fiction. “Altrimenti”, ha spiegato mister Dowden, “temo che una generazione di spettatori che non ha vissuto gli eventi in questione possa scambiare la fiction per fatti”. Pochi giorni più tardi Netflix ha risposto in una nota ufficiale che non ci pensa nemmeno: “Abbiamo sempre presentato The Crown come un dramma e siamo certi che i nostri iscritti capiscano che si tratta di un’opera di fiction genericamente basata su eventi storici. In conclusione non abbiamo intenzione, e non vediamo alcuna necessità, di aggiungere un disclaimer”. La richiesta del ministro e il rifiuto della piattaforma dimostrano non soltanto che l’Impero britannico non è più quello di una volta, ma anche che la narrazione, come ai tempi dell’Iliade, è ancora il luogo dove la storia umana si deposita e il passato può diventare pubblico e condiviso. Lo scambio tra Mr. Dowden e Netflix è interessante anche perché condensa in una domanda e in una risposta la natura paradossale della fama e del potere, in quanto proiezioni collettive.

     

    Come racconta, appunto, The Crown, il mestiere della Regina è mettersi in scena, rappresentare sé stessa a beneficio del popolo fino al punto di sostituire la propria esistenza concreta con un’immagine istituzionale. Ogni sovrano, diceva Carl Schmitt, in fondo è un attore che incarna nel proprio corpo il corpo collettivo del popolo. Per questo nel Seicento il sovrano era spesso rappresentato come un gigante formato dai mille corpi dei sudditi. La domanda che sta alla base di The Crown e che riemerge sotto forma di scontro nello scambio tra Mr. Dowden e Netflix è: la rappresentazione del sovrano appartiene al sovrano o al popolo per cui è rappresentata? Appartiene, insomma, a Mrs. Elizabeth Alexandra Mary Windsor, nata il 21 aprile 1926 alle ore 2.40 orario di Greenwich, oppure al popolo britannico che dal 6 febbraio 1952 le ha creduto in quanto Regina? 

     

    Il dilemma è irrisolvibile, come i paradossi antichi. Se la rappresentazione della sovranità appartiene alla Regina, allora non può appartenere al popolo, perché quella rappresentazione esiste e ha legittimità soltanto se è completamente pubblica, cioè cessa di essere individuale. Altrimenti sarebbe un inganno. Un’illusione. Se viceversa appartiene al popolo, il paradosso è che la Regina perderà ogni diritto sulla rappresentazione di sé: potrà mettersi in scena come vuole, scegliere i tailleur e i cappellini dei colori che preferisce, decidere d’arbitrio a quali cravattai, cappellai, produttori di salse, apporre il proprio sigillo by appointment, se apparire o non apparire sulle t-shirt o sui servizi da tè, e suggerire ai sudditi l’immagine di sé che più desidera, ma non potrà in alcun modo governare l’immaginazione del suo popolo. In breve, smetterà di possedere un privato, o almeno un privato visibile e pubblico. Il fatto che la vita concreta della Regina coinvolga fatalmente altre esistenze – per esempio quelle di Margareth Thatcher, Winston Churchill, Lady Diana e di suo figlio Charles e della loro progenie – dimostra soltanto che, nel caso della sovranità, la dimensione pubblica è tutt’ora così assoluta da assorbire anche le esistenze laterali. 

     

    L’aspetto interessante di queste domande è che il territorio del diritto, in questo caso, si rivela inadeguato a governare e a legiferare su quello della narrazione. La storia racconta vite che non appartengono più a chi le ha vissute. Ogni film biografico – ma anche ogni biografia, forse perfino ogni autobiografia – mette in scena esistenze che gli occhi del pubblico hanno fatto a brandelli, strappandole a chi le ha vissute: è successo a Cesare e a Napoleone, ad Andreotti e Berlusconi nei film di Sorrentino, ed è accaduto di recente in vita e in morte a Diego Armando Maradona, trasformato in santo e reliquia. La storia umana racconta le vicende di esseri umani che non sono più umani, perché la fama li ha spogliati del possesso di un’individualità, trasformandoli in esempi. Accadeva con Omero, accade con Netflix. Mettersi in scena significa, paradossalmente, rinunciare al controllo della scena: accettare di farsi opera e di cedere la propria immagine agli altri. E’ com’è quando scrivi un libro, una canzone o dipingi un quadro: l’opera finisce di essere tua nel momento esatto in cui diventa opera, cioè diventa pubblica. L’opera di alcune persone – per diritto dinastico, genio, ambizione, megalomania o anche soltanto per caso – è la vita. E, come accade nelle chiese, quando ci si sorprende a osservare le zone brillanti sulle statue di bronzo e ci si rende conto che brillano perché sono state toccate da mille dita di fedeli, ti puoi accorgere che quella luce è in realtà anche una diminuzione, una consunzione, una trasformazione subita e non agita. Lo stesso avviene con la fama, che è la brama di essere riconosciuti per quello che si è attraverso l’immagine che di te costruiscono gli altri, fino a quando ti accorgerai che ogni sguardo ricevuto è un pezzo in meno di te.