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Scoprire il Veneto /7

Il Polesine è un altrove

Giovanni Battistuzzi

Il rovigotto è la frontiera del Veneto, un luogo dove l'acqua gioca a nascondino coi campi e la luna sa ancora illuminare la terra. Il fascino cinematografico che intrigò Jonathan Demme e ispirò molti nostri registi da Luchino Visconti a Michelangelo Antonioni sino a Carlo Mazzacurati e Antonio Padovan

Era la metà degli anni Novanta quando il regista premio Oscar Jonathan Demme si convinse che il grande cinema si trovava nelle storie piccole. Lo capì una volta a cena quando il suo tuttofare gli aveva raccontato dei cacciatori d’anguille di frodo nel Polesine. Lui in Italia c’era passato solo un po’ di volte, qualche vacanza in alberghi che si possono trovare in ogni città del mondo, perché il gran lusso non ha confini, è uguale ovunque. Ma l’Italia gli sarebbe piaciuta raccontarla, o almeno raccontare quella che usciva da sotto i baffoni di Frank Rizzo, che da anni lo aiutava a fare questo e quello e che quasi sempre veniva spedito a fare i sopralluoghi.

 

Nel 1993 Rizzo venne rispedito a casa sua, nel rovigotto, per fare un po’ di foto, qualche ripresa, ché la storia dei cacciatori d’anguille di frodo nel Polesine a Demme non sarebbe dispiaciuta girarla. Certo all’americana, alla sua maniera. Quando i baffoni di Frank Rizzo ritornarono in America, “Jonathan rimase stupito da quei luoghi che gli sembravano la Luisiana, ma molto più misteriosi”, dice al Foglio. “Erano i miei luoghi, quelli nei quali sono cresciuto. Poi la mia famiglia fece i bagagli e via verso l’America. Che ci vuoi fare, mica c’era tanto da mangiare e mio padre c’aveva un fratello a Miami. E così ci siamo trasferiti lì. Conobbi Jonathan che eravamo ragazzi, poi lui fece il regista e io da Miami partì per girare l’America guidando i camion. Milioni di chilometri, dall’Atlantico al Pacifico. Quando ci incontrammo di nuovo, per caso, mi disse che uno come me faceva al caso suo: mi propose di aiutarlo a trovare i luoghi giusti per girare. Io a fare cinema? Ci pensi? Accettai subito”.

 

Del film sui cacciatori d’anguille di frodo non se ne fece niente. “Gli artisti sono così, hanno mille idee, qualcuna la realizzano, ma non quella. E Jonathan artista lo era davvero e coi fiocchi. E anche sul Polesine aveva ragione: è un luogo magico”.

  

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Il Polesine è una distesa di campi che gioca a nascondino con l’acqua. La terra si nasconde, appare, scompare, si mimetizza. È un vuoto pieno di vita, un formicolare di esistenze che si muove piano, che si nasconde dalla velocità e dalla voracità del presente. È il fronte meridionale del Veneto, una frontiera che proprio perché frontiera è rimasta immutata, terra d’avanguardia e di retrovia allo stesso tempo. Un mondo parallelo, intrigante e non sempre ospitale. Piccole distese di capannoni a far da corollario al teorema dell’industrializzazione e distese di appezzamenti coltivati a ricordare cos’era questa regione. Grandi spazi aperti a circondare sporadici luoghi chiusi. L’ultimo baluardo del dominio delle tonalità del verde: perché campi e acque sono accomunati dallo stesso destino cromatico.

  

In ogni altra provincia della regione c’è un detto che suona uguale ovunque, quasi fosse una verità: co Rovigo no me intrigo. Ed è un non intrigarse dovuto a un altro detto: Rovigo xé pien de nient. Eppure è proprio questo niente a renderlo affascinante, a trasportare chi nel Polesine passa in un altrove unico.

 

“Jonathan, anche se poi ci venne mai a girare, capì subito che quei luoghi esercitavano un fascino particolare, molto cinematografico”, sottolinea Frank Rizzo.

 

Un fascino che aveva attratto Luchino Visconti, Roberto Rossellini, Michelangelo Antonioni, Mario Soldati, Pupi Avati, Ermanno Olmi. Al quale non aveva resistito Carlo Mazzacurati, che nel rovigotto debuttò alla regia con Notte italiana, girò L’estate di Davide, prima di far scorrere in queste zone le esistenze dei protagonisti di La Giusta distanza. Il regista aveva detto che non poteva sottrarsi a quei luoghi “perché hanno la capacità di entrarti dentro, avvolgerti e cullarti da una malinconia e una sincerità incredibili. Hanno dentro tutto, devi solo sapere cogliere la meraviglia di questo subuniverso”.

 

Un subuniverso che si può camminare e pedalare, che ti abbraccia se si ha la voglia di farsi abbracciare e provare a estraniarsi dalla quotidianità che ci circonda.

 

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Il Polesine non è un piccolo mondo antico, non ha niente a che fare con la nostalgia. È scoperta, novità, perché lontano da ogni canone estetico contemporaneo. Il regista Antonio Padovan disse un anno fa al Foglio che questi luoghi “sono un’epifania”. È la provincia vera, quella che tutti raccontano senza mai raccontarla davvero. Padovan quell’epifania l’ha seguita dietro la macchina da presa. Nel Polesine ha ambientato il suo secondo film Il grande Passo. Lì ha seguito le vicende di due fratelli, Giuseppe Battiston e Stefano Fresi, alle prese con il sogno del primo di andare sulla luna.

  

La luna sembra più grande in Polesine. Sembra più vicina, è ancora capace di illuminare la notte. Quando si riflette nei mille rivoli d’acqua che lo attraversano sembra la conclusione di un grande falò. È capace pure di imbiondire la nebbia, donarle un fascino sconosciuto altrove.

  

Non poteva essere ambientato che qui il film di Antonio Padovan. In quelle terre dove nessuno ha voglia di intrigarse, ma che poi riescono ad afferrare la fantasia. La stessa che ci vuole per sognare ancora la luna.


    

Le puntate precedenti del viaggio in Veneto di Giovanni Battistuzzi le potete leggere qui

 

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