Foto di Philip Schäfer via Wikipedia

Scoprire il Veneto

La sorpresa delle ville palladiane

Giovanni Battistuzzi

Nel vedere spuntare il bianco de La Rotonda, di Villa Chiericati, di Villa Forni Cerato, di Villa Pisani, di Villa Valmarani, dal verde di boschi e campi l’idea che natura e architettura appartengano a due mondi differenti cigola

È alle elementari che si inizia, in un modo o nell’altro, ad affacciarsi al mondo, a scoprire che il vicino è un po’ più distante da quello che si immaginava, che oltre la propria via, il proprio quartiere, la propria città c’è altro. È un primo passo verso l’estensione del dominio della curiosità, quello che ci fa iniziare a pensare che questo altro sia poco rispetto al tutto. 

 

Alle elementari le maestre di solito la fanno semplice. Anche perché quando si inizia ad apprendere è sempre meglio farla semplice, spiegare l’abc delle cose, classificarle in categorie facili da comprendere. Una delle prime cose che insegnano è che esiste la natura, i suoi animali e le sue piante, e ciò che l’uomo ha fatto. Non che le due cose siano in conflitto, semplicemente che esiste una differenza tra ciò che c’era e ciò che è stato costruito. E quando si è bambini è immediato capire questo: lo si è visto da sempre e da sempre, almeno per chi ha contatto con la campagna, la collina o la montagna, si è notata facilmente la differenza. Due mondi che ci a quell’età ci sembrano distinti, da una parte ciò il paese o la città, le loro strade e i loro edifici che inseguono una sorta di razionalità a volte difficile da cogliere, dall’altra i campi, i boschi e tutto quel complesso mondo di nascondigli e cose da scalare. Due mondi che spesso viene difficile da unire in uno sguardo solo. 

 

Lo sguardo, scriveva il pittore veneziano Emilio Vedova, va però educato perché “vedere è semplice, naturale, osservare invece è questione di relazioni. Pregresso, sapere e consapevolezza possono condurre l’occhio a comprendere le immagini che si hanno davanti”. Le prime gite sono il primo approccio a quell’altrove che anno dopo anno si allarga. E una delle prime gite, almeno per chi a scuola ci va in Veneto e dintorni, è quella nei dintorni di Vicenza, tra le ville palladiane. 

 

È lì che le categorie che le maestre avevo insegnato iniziano a scricchiolare, a confondersi, a non essere poi così categoriche. È lì che ciò che c’era e ciò che è stato costruito si avvicinano e non sembrano più così distanti agli occhi bambini. 

 

Certo è una natura addolcita, ammansita, ricalibrata eppure nel vedere spuntare il bianco de La Rotonda poco fuori Vicenza, di Villa Chiericati a Grumolo delle Abbadesse, di Villa Forni Cerato a Montecchio Precalcino, di Villa Pisani a Bagnolo di Lonigo, di Villa Valmarani a Bolzano Vicentino, dal verde di boschi e campi l’idea che natura e architettura appartengano a due mondi differenti cigola. 

 

Per Johann Wolfgang Goethe in Andrea Palladio “v'è davvero alcunché di divino nei suoi progetti, né meno della forza del grande poeta, che dalla verità e dalla finzione trae una terza realtà, affascinante nella sua fittizia esistenza”, scrisse nel suo Viaggio in Italia. 

 

Per l’architetto le sue ville avevano un obbligo, “integrar mondo e spirto, quel che il Divin creobbe con quel che il pensier maginò”. 

 

Davanti a villa La Rotonda al giovane protagonista de “Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister” Goethe fece dire: “Forse mai l’arte architettonica ha raggiunto un tal grado di magnificenza”. E di fronte a questa unione tra natura e architettura anche gli occhi bambini comprendono facilmente come ciò che c’era si può unire a ciò che è stato costruito, educare il proprio sguardo, comprendere che le categorie sono solo contenitori da riempire dalle pareti instabili, comunicanti. 

 

Per l’architetto Frank Lloyd Wright le ville palladiane “al di là del marcato e opprimente neoclassicismo”, sono “ciò che meglio ha rappresentato l’equilibrio tra architettura e natura”, un predecessore di ciò che l’americano chiamò architettura organica. 

 

Di ville palladiane ce ne sono sul Brenta, nel trevigiano, giù verso il Polesine, a ovest verso il veronese. La maggior parte si dipana in una quarantina di chilometri attorno a Vicenza, tra i colli rigati dai filari di Tai e Garganego, lì dove lo scrittore Luigi Meneghello scrisse che è un reato non pedalare. 

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