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Dalle vite apocrife di san Francesco una lezione alla narrativa contemporanea

Sandra Petrignani

Domande intelligenti nel nuovo libro di Massimiliano Felli

Che cos’è l’identità e a quante interpretazioni si presta una vita? E’ questa la domanda che Massimiliano Felli si pone nel suo recente Vite apocrife di Francesco d’Assisi (Fazi, 370 pp., 17 euro) abbandonando la via del giallo (storico) frequentata in precedenza e misurandosi con un romanzo di forte tempra narrativa che del poliziesco mantiene l’idea di ricerca e lo svelamento di intrighi. Dopo gli studi letterari al Dams, l’autore (classe 1984) ha intrapreso un dottorato in Antichità classiche che gli ha fornito strumenti preziosi (la scuola è sempre quella di Umberto Eco) per valersi nel suo racconto di chierici amanuensi come di monaci dai doppi, tripli interessi, a volte molto poco spirituali e invece parecchio mondani. Siamo nella seconda parte del 1200. Il “poverello di Assisi” è morto da una quarantina di anni, gli sopravvive la fama e la leggenda della sua vita, coraggiosa e moralmente inattaccabile, come la sua santità, tramandata, sia pure in modo contraddittorio, da chi ne è stato compagno di vocazione. “In ognuno di questi racconti, persino nel più incredibile e fantasioso, può esserci una scintilla di verità” ragiona il protagonista, il giovane amanuense Diodato. Ma ci sono poi alcuni documenti che Bonaventura da Bagnoregio (tuttora il biografo più accreditato di Francesco e santificato a sua volta) vorrebbe distruggere, come vorrebbe cancellare l’esistenza dell’ultimo testimone vivente, tal frate Leone che, dato per pazzo, vaga nascosto e irraggiungibile nel bosco, mentre del santo conserva una visione a parere di Bonaventura inappropriata. Sarà proprio Deodato a scovarlo. Un famoso detto avverte: “Scherza coi fanti e lascia stare i santi”, ma Felli è un guastatore che crede nel potere assoluto della letteratura contro quanto gli uomini – e qui in particolare Bonaventura – in nome dell’opportunità “politica” delle loro azioni e dei loro disegni, sono disposti a manipolare, aggiustare, abbellire.

 

Naturalmente Diodato nutre parecchi sospetti e, invece di distruggere gli scottanti documenti che gli sono stati affidati per il fuoco, li salva. Non solo: si mette alla ricerca di frate Leone, che ne ha di cose da dire, e molto lucide e diverse dalla trionfante iconografia sull’autore del Cantico delle creature. A cominciare (o per finire) dal rapporto con la luminosa, altrettanto determinata e ribelle Chiara, della quale viene tratteggiato un inedito, fascinoso, irriverente ritratto. Se una specialista del Medioevo, qual è Chiara Frugoni, non ha nulla da eccepire sulle libertà che si prende l’autore, tanto da figurare in quarta di copertina con questa nota: “Non tutti i fatti andarono così…, ma si leggono con vero godimento”, non è secondario che a sostenere il libro siano anche due narratori molto poco ortodossi, anzi decisamente antiromanzeschi (se per romanzo s’intende quella forma semplificata che oggi trionfa) come Andrea Tarabbia e Filippo Tuena, congeniale e ottima compagnia. E infatti, tornando al tema dell’identità sempre molteplice e incerta che dicevamo all’inizio, Massimiliano Felli – dietro le mentite spoglie di Deodato – s’interroga sul romanzo e sul romanzare, arrivando a una conclusione che apre una strada al suo narrare futuro, quando il morente Leone gli dà un’indicazione decisiva: “Sospendi il giudizio”. Non opporre interpretazione a interpretazione, perché ogni interpretazione è mistificante, gli dice; attieniti ai fatti, ai “nudi eventi”. Una strada su cui ci sentiamo senz’altro di scommettere. Sia per il futuro di questo interessante scrittore, sia per quello più generale della narrativa contemporanea.