Il cacciatore dei deserti
Sabbie nobili. Storia eroica e forsennata di John Pepper, fotografo delle distese africane, erede di una famiglia americana ben piantata in Italia. Da ragazzino attore con Liz Taylor, ora è approdato a Todi con una mostra
Arrivi a Todi e ti imbatti in improbabili bandiere iraniane, egiziane, russe, israeliane, che sventolano all’ingresso della città, mentre uno sceicco si aggira vestito da sceicco. Non stanno girando una coproduzione con la Libia, né è in corso un G8 molto nordafricano, si tratta invece di una raffinata mostra-performance intitolata “Inhabited deserts” e che al contrario del titolo è fatta di foto di deserti rigorosamente privi di umani. Proprio deserti. Il fotografo è John Pepper, non nuovo alla cittadina umbra: ivi in parte è cresciuto, essendo figlio della compianta Beverly, leggendaria artista di land art che lì presidiava un’enclave artistica famosa. Ma adesso Pepper si reimpossessa dei luoghi con queste cinquantasei foto in bianco e nero realizzate in tre anni di peregrinazioni tra le meglio sabbie del mondo. Diciottomila chilometri tra Stati Uniti, Russia, Oman, Iran, Israele, Egitto e Mauritania, per produrre questo bianco e nero rigorosamente analogico, racconta Pepper, sessantenne, nel suo maglioncione un po’ bucato e un’aria di grandezza decadente tra la Dolce Vita e il West. Fotografo da sempre, questa passione desertica gli è venuta a un certo punto nel Nevada, in un colossale deserto domestico, e poi, racconta, a Dubai si è imbattuto nel suo animale-guida: Max Calderan, il più famoso desertologo vivente, conosciuto per caso al consolato d’Italia. Da lì, parte la sua ricognizione con poche semplici regole: “Niente esseri umani, niente oasi, solo sabbia e ancora sabbia”; e la sabbia torna anche nell’allestimento della mostra, curata da Gianluca Marziani e Kirill Petrin, fortemente voluta da Emmanuele F.M. Emanuele. Mentre si ammirano gli scatti, nella sabbia si possono immergere le mani, e la full immersion desertica a Todi ha visto anche la presenza di un bizzarro personaggio, un vero sceicco, appunto, Ahmed Mohammed Al-Jebali, della tribù Jabaleya, “che protegge il monastero di Santa Caterina sul Sinai da duemilacinquecento anni”. La mostra, che sarà presto pronta per emigrare verso altri lidi, riporta glamour internazionale-mediorientale a Todi con un altro Pepper, artista in proprio in una famiglia “larger than life”. Il padre Bill è stato infatti un celebre corrispondente di Newsweek da Roma. La sorella Jorie Graham, premio Pulitzer, è una delle poetesse più importanti d’America. E la mamma, Beverly Pepper, era…Beverly Pepper. Peccato che è morta a febbraio, non ha fatto in tempo a vedere la mostra. “Ha avuto sempre un timing perfetto, avrebbe odiato questo Covid”, dice il figlio desertologo. La famiglia Pepper è una meravigliosa incubatrice di storie nella Roma del Dopoguerra, tra postumi di una Dolce vita che non era poi così dolce: “nessuno aveva una lira, semplicemente si pensava solo al futuro, e a quanto era stato fico sopravvivere alla guerra”. In giro per casa Gore Vidal, Kirk Douglas, il barbiere Rocco che viene a tagliare i capelli a domicilio, mentre Beverly cucina meatball e scrive libri di cucina di un certo successo, per sbarcare il lunario. E un vecchio signore che parla inglese con forte accento francese. “Una mattina vedo mio padre che come ogni giorno è intento alla lettura dei suoi quotidiani, e c’era questo vecchietto che gli mostra una macchinetta fotografica e gli dice: la prima regola è non diventare sentimentali col proprio soggetto, you have to be like a killer (Pepper imita perfettamente l’inglese-francese), e il vecchietto non è altri che Henri Cartier-Bresson. “Ma Possiamo parlare dei deserti, per favore?”, prega Pepper. Un attimo, un attimo. Curtis Bill Pepper era arrivato in Europa con la guerra, controspionaggio e partigiani, poi in bicicletta fino a Firenze e Roma. All’hotel d’Inghilterra incontra Beverly. “Vede questa gnoccona al bar e le offre da bere e la invita a cena. Lei dice che ha già un impegno, e va alla cabina telefonica del bar, e fa finta di telefonare e parla per una decina di minuti con sé stessa per disdire il suo falso appuntamento. Escono a cena ma lui, eravamo in fondo negli anni Quaranta, la riaccompagna in hotel. Si danno appuntamento il giorno dopo, lui arriva in ritardo, lei gli tira una secchiata d’acqua in testa”.
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- Michele Masneri
Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).