Raffaele La Capria in uno scatto del 2015 (foto Ansa)

Un altro tuffo nei libri di La Capria, per riscoprirlo più giovane che mai

Marco Archetti

I trent’anni (e non sentirli) di “Letteratura e salti mortali”

Trent’anni e non sentirli. Succede a “Letteratura e salti mortali”, che li compie tondi quest’anno, mentre per il suo autore, Raffaele La Capria, a ottobre saranno novantotto. Non è chiaro se il merito vada esclusivamente alla felicità del suo pensiero e della sua scrittura o almeno in parte debba attribuirsi a più deprimenti corresponsabilità (tra tutte, l’arcinota renitenza del mondo letterario italiano al rinnovamento e alla comprensione critica dei propri vizi, nel frattempo secolari), ma è innegabile che, dopo un’agile rilettura, testo e autore paiano oggi più giovani che mai. Anzi, stupisce il fatto che, negli ultimi trent’anni, le questioni cruciali che questa miniera in forma di autobiografia letteraria suggerisce e propone non abbiano monopolizzato l’attenzione – forse perché raramente siamo capaci di vera attenzione quando si parla di libri?

 

Se ci è consentita una scampagnata biblio-panoramica collaterale, il consiglio è quello di cogliere lo spunto al balzo e di rileggersi tutta l’opera di La Capria, così poco italiana, per nulla verbosa, piena di grazia invisibile, che dal 1952 a oggi è stata in grado di regalarci, d’infilata: una sceneggiatura entrata nella storia del cinema italiano (il film era “Le mani sulla città”); tre romanzi (di cui uno epocale, “Ferito a morte”); un mazzo di opere epistolari o autoepistolari che stanno tra l’invenzione, la reinvenzione e l’autobiografia geografico-sentimentale (tutto tra virgolette e mai a capofitto nell’agiografia napoletanesca da sempre in voga); e un ricco novero di testi che sarebbe inesatto definire saggistici, non fosse altro per il fatto che, pur trattando di questioni astratte che circumnavigano e circoscrivono il “sentimento della letteratura”, sono dotate di quella qualità mozartiana che le avvicina più che altro a un volo di idee, a una conversazione immaginaria che La Capria da anni intrattiene con se stesso e con i lettori, inseguendo sempre la traiettoria del proprio aquilone. La qualità che La Capria ha continuamente espresso e che lo rende difficile da classificare ma bello da leggere e da ascoltare (sì, La Capria si fa ascoltare – La Capria risuona dentro le nostre stanze interiori) è solo una: l’avere coltivato se stesso in ossequio a nient’altro, e la propria scrittura in spregio a ogni manierismo e ideologia minore da cricca. Si chiama patto di lealtà ed è sconosciuto ai più, i più con la penna in mano che ignorano le implicazioni morali di ogni prospettiva narrativa.

 

In “Letteratura e salti mortali” stupiscono, per attualità, alcuni capitoli. “Il conformismo della forma” è una freccia scagliata al cuore della “fuga nello stile e nella performance formale” che marchia la letteratura italiana, da quando “il manierismo della critica ha incontrato il manierismo della letteratura”, e “il pluralismo della chiacchiera letteraria è di fatto omologo a quello confusionale della chiacchiera radiotelevisiva”. Il tono è quello di sempre, rigoroso e non aspro, il tono di chi vuole capire e mai quello di un contabile di torti (altrui) e di ragioni (proprie). Grande nemico, La Capria, delle convenzionalità estetiche e dell’idea che la letteratura provenga dalla letteratura e non dalla realtà, dell’arzigogolo metafisico e dell’intruglio simbolico che portano a opere di “falsa buona letteratura”, si era accorto già trent’anni fa che quel delirio avrebbe ridotto il romanzo a un manufatto di oreficeria, a un esercizio di “stile evidente” collocato all’interno di una tradizione retorica ma non romanzesca, macramè di squisita fattura inevitabilmente sterile, “radice quadrata della letteratura” che molto, anzi, troppo, “ha a che fare con l’irrealtà che si respira dovunque, ogni giorno, come l’aria”. Poi sfilano i capitoli sui romanzi “non riusciti”, e le acute riletture di Pavese, Pasolini, Gadda, Calvino, Arbasino, Manganelli, e la dichiarazione d’amore per la letteratura di lingua inglese e americana, capace come nessun’altra di accettare un confronto vero e non pusillanime con tutto ciò che accade, e di afferrare un sentimento del mondo.

 

Infine, “Ricordo di Goffredo” e “Il sillabario di Parise”, che riportano in vita il moschettiere più intrattabile e bizzarro, l’amico amato dal sorriso sornione e incurante, sbirciatore delle vite altrui e provocatore nato – a Gadda regalò un astuccio con due falli di gomma per il puro gusto di scandalizzarlo. Un amico che diceva: “La cultura non è aver letto libri. La cultura è aver lavorato per capire”.