La classicità magnetica dei “Quartetti” di Eliot (tradotti da La Capria)

Alfonso Berardinelli

Forse il regalo migliore che si può fare per l’anno nuovo a chi ama la poesia, o semplicemente ne è attratto, sono i “Quattro quartetti” di T. S. Eliot pubblicati dall’editore Enrico Damiani: illustrazioni di José Muñoz, un cd con la lettura di Paolo Bessegato e una traduzione d’autore come quella di Raffaele La Capria, secondo me il più adatto a dare voce italiana a questo capolavoro della letteratura del Novecento.

    Forse il regalo migliore che si può fare per l’anno nuovo a chi ama la poesia, o semplicemente ne è attratto, sono i “Quattro quartetti” di T. S. Eliot pubblicati dall’editore Enrico Damiani: illustrazioni di José Muñoz, un cd con la lettura di Paolo Bessegato e una traduzione d’autore come quella di Raffaele La Capria, secondo me il più adatto a dare voce italiana a questo capolavoro della letteratura del Novecento.

    Credo che la mia amicizia e sintonia letteraria con La Capria debba qualcosa alla nostra comune e precoce lettura dei “Quartetti” di Eliot, che lui cominciò a tradurre nel 1945, quando aveva poco più di vent’anni e che io lessi da liceale, a diciassette anni, nella traduzione di Filippo Donini uscita da Garzanti. Avevo da poco scoperto l’esistenza di Eliot sfogliando non so quale rivista nella sala d’aspetto di uno studio dentistico e rimasi molto colpito dall’originale profilo grifagno di quello che veniva definito in didascalia il Dante del Novecento.

    Questa doveva essere una notizia che oscuramente aspettavo, perché mi liberava dal sospetto che la letteratura moderna, da me amata e clandestinamente frequentata, mancasse di un’autorità paragonabile a quella dei classici studiati a scuola. Scoprivo invece che esisteva anche una classicità attuale e che nessuno la incarnava meglio di quell’elegante poeta angloamericano. Poco dopo lessi i “Quartetti” e ne rimasi affascinato. A qualunque genere letterario appartenessero, mi convinsi che si doveva scrivere così. Capii che la narrativa non faceva per me, che tutti quei passaggi descrittivi e dialogici erano troppo lenti e in verità mi annoiavano e che la poesia era un linguaggio nel quale si poteva più liberamente, sinteticamente e suggestivamente dire tutto, o meglio dare forma a ogni genere di stato mentale: squarci narrativi, divagazioni, descrizioni, choc sensoriali e riflessioni filosofiche.
    Con i suoi “Quartetti”, composti fra il 1934 e il 1942, Eliot aveva scritto un unico poema distribuito in quattro sezioni. I quattro luoghi nominati nei titoli, le quattro stagioni, i quattro elementi (acqua, aria, terra, fuoco) e ogni quartetto scandito con perfetta simmetria in cinque tempi: variazioni di ritmo e di tono, distensione recitativa e contrazione aforistica o lirica, realismo e simbolismo, diario e metafisica, dinamismo (il fuoco) e perfetta bellezza (la rosa), movimento e fissità, la storia e ciò che è oltre la storia. In questa opera matura e finale non si incontrava più nulla di violento, di casuale, di lacerato o insensato come nella “Terra desolata”, pubblicata contemporaneamente all’“Ulisse” di Joyce nel 1922.
    Eliot aveva deciso di essere il classico del Novecento. Aveva progettato di sintetizzare modernità e tradizione. Era un poeta che lavorava sulla filosofia e sapeva pensare con chiarezza e coerenza: ma senza essere un illuminista. Sapeva esplorare e descrivere con magnetica sottigliezza stati emotivi sfuggenti, al limite della dicibilità: eppure aveva rifiutato con determinazione l’intera cultura romantica. Aveva analizzato il caos e l’assurdo, ma aspirava alla fede e all’ordine. Era stato uno dei più rivoluzionari e durevolmente innovativi poeti moderni, la sua influenza superava ogni confine inducendo trasformazioni radicali nello stile poetico di varie letterature: eppure era un conservatore sia in politica che in arte. Amava e rimpiangeva con passione e amarezza il passato, i grandi classici come Virgilio, Dante, Donne, Dryden: ma la sua sfida frontale era con Baudelaire, primo e maggior classico della poesia moderna.

    Forse ho tuttora addosso le prime impressioni di lettura di quel lontano 1960. Il flusso ritmico dei “Quartetti” continua a sembrarmi trascinante e inimitabile. Lo stile di Eliot è insieme morbido (morboso) e laconico (severo). Questi poemetti sono leggibili come saggi in versi o come monologhi drammatici. Sul loro carattere saggistico l’incipit non lascia dubbi: “Il tempo presente e il tempo passato / Sono forse insieme presenti nel tempo futuro, / E il tempo futuro è già compreso nel tempo passato. / Se il tempo tutto è in eterno presente / Non c’è redenzione nel tempo”.

    Questo nel primo quartetto. Ma nel secondo tutto cambia e si mescola: “ Nel mio principio è la mia fine. Senza posa / Le case sorgono e decadono, crollano, si moltiplicano, / Sono abbattute, restaurate, o al loro posto / Resta un campo deserto, una fabbrica, un viottolo. / Vecchia pietra per nuovi edifici, vecchia legna per nuovi fuochi, / Vecchi fuochi alle ceneri, e ceneri alla terra / Che subito è carne, pelle e feci, / Ossa d’uomo e di bestia, stelo di grano e foglia. / Le case vivono e muoiono: c’è un tempo per costruire / E un tempo per vivere e procreare…”.

    Dove siamo? E quando? Tutto è reversibile e complementare. Tutto solennemente si avvicenda in una visione di cose ravvicinate e distintamente percepite, mentre il tempo subisce una vertiginosa accelerazione, come in un film in cui un decennio o un secolo abbiano la durata di un’ora o di pochi minuti.

    Certo l’ispirazione dei quartetti eliotiani è fondamentalmente mistica: si parla di “still point of the turning world”, di “concentrazione senza eliminazione” (una tecnica buddista), di “interiore liberazione dal desiderio immediato”. Ma infine: “Solo nel tempo il tempo è conquistato”, non c’è liberazione senza incarnazione.

    Credo che lo stile nel quale La Capria scrisse il suo romanzo del 1961, “Ferito a morte”, sia debitore più di questi poemetti che della prosa di Joyce. Anche se, come scrisse Edmund Wilson, lo stesso Joyce è “paragonabile più ai grandi poeti che alla maggior parte dei grandi romanzieri”.