Quello che nessun Saviano ha capito di Napoli, ovvero “Malacqua”

Redazione

La pioggia a Napoli da fatto collettivo diventa sempre constatazione di solitudine, quella massima: la morte. Quindi cronaca e poi romanzo. Così la pioggia e una strada, Via Aniello Falcone, creano un cortocircuito elettrico: cronaca-storia-letteratura-letteratura-storia-cronaca. Da una voragine del 1969 che costò la vita ad Alfredo Cerrato si può arrivare alla caduta di un albero nel 2013 che è costata la vita a Cristina Alongi, passando per un libro, “Malacqua”, dove due donne morivano inghiottite proprio da una voragine, durante quattro giorni di pioggia.

di Marco Ciriello

    La pioggia a Napoli da fatto collettivo diventa sempre constatazione di solitudine, quella massima: la morte. Quindi cronaca e poi romanzo. Così la pioggia e una strada, Via Aniello Falcone, creano un cortocircuito elettrico: cronaca-storia-letteratura-letteratura-storia-cronaca. Da una voragine del 1969 che costò la vita ad Alfredo Cerrato si può arrivare alla caduta di un albero nel 2013 che è costata la vita a Cristina Alongi, passando per un libro, “Malacqua”, dove due donne morivano inghiottite proprio da una voragine, durante quattro giorni di pioggia. E sbagliava Milcho Manchevski, col suo film “Prima della pioggia”, a dire: “Time never dies, the circle is not round”, il cerchio si chiude se c’è un grande libro capace di uccidere il tempo. Perché in Macedonia non c’è Napoli, e se nel suo film la pioggia arrivava dopo la vita, a lavare via il sangue e le colpe, qui no, è l’origine del sangue, e soprattutto il capro espiatorio con tutto il carico di colpe. Se la perdita di vita e di tempo viene raccontata senza retorica né compiacimento, ecco: “Malacqua”. Scritto da Nicola Pugliese, giornalista al Roma, uscito nel 1977 da Einaudi, tornato ora in libreria grazie a Tullio Pironti, un anno dopo la morte dell’autore. E’ il libro che insieme a “Ferito a morte”, di Raffaele La Capria, forma la diarchia letteraria che governa Napoli. Un lungo denso verbale di un disastro, che comincia proprio – causa pioggia – con due morti, due auto ingoiate da una voragine in Via Aniello Falcone, una strada-confine, che si regge sul vuoto, ieri come oggi. Che a guardarla Napoli è ancora tutto nell’urlo di poca pesca di Totonno, il vecchio pescatore di “Ferito a morte”: “Malacque, malacque!”, che Nicola Pugliese fa salire fino al centro della città: “La mattina del 5 agosto, quando il mare, eludendo una inutile e incomprensibile ‘Opera di Piantonamento’” – come oggi il lungomare liberato – “delle forze dell’ordine, era salito per le strade della città fino a Montedidio, per andare incontro ai ragazzi”. Il romanzo si serve di una scrittura questurina (non a caso i personaggi sono scritti cognome e nome) ma ogni parola è pesata perché proprio le parole sono l’unico argine al diluvio universale o suo derivato, a tenere la storia è la figura di Andreoli Carlo: giornalista. Intorno ha una umanità napoletana che sta sotto al cielo e sotto tanta pioggia e prova a scansare le voragini, i crolli, gli alberi e le buche, tanto che il lettore è portato a chiedersi ma tra pioggia è morte, da quale delle due sarebbe più lecito o meno scandaloso aspettarsi ricorsività? E avesse letto “Malacqua” il sindaco De Magistris, ci poteva riempire le conferenze stampa sulle buche, i palazzi della riviera che vengono giù, il lungomare liberato e persino qualche fatto personale. Avrebbe visto Napoli in quelle pagine, che a toglierci le telescriventi e a metterci i tablet sarebbe ancora tutto uguale: “La città fu costretta allora ad abbassare gli occhi, e gli occhi si guardarono le mani ferme in grembo, ferme e malate come per malattia e malattia non era”. Era superficialità, distillata superficialità. Dove il “Grande Cerchio” della normalità della storia si chiude e schiaccia e sempre si porta via qualcuno. “Dal Grande Cerchio non si esce, nessuno esce mai, e quando esce vuol dire che per lui non c’era più niente da fare”, ripete Andreoli Carlo: giornalista, senza accorgersi che a Napoli quel “Grande cerchio” è una porta girevole. Dove si infila la pioggia, e la morte per acqua – come sapeva bene Eliot – è dolorosissima, a Napoli si fa mistero glorioso, con la terra che si apre e ingoia o negli alberi che si fanno asce. E se nella realtà questo mistero è accettato come quello del sangue di san Gennaro, nel romanzo: Pugliese ha bisogno di aggiungere tre bambole misteriose, e di racchiudere il lungomare in una figura umana che si arrende allo stato dei fatti: “Santa Lucia ristretta nelle spalle”, e tutto si fa cronaca, perché ciò che accade è inevitabile e chi rimane non può far altro che prenderne atto.

    C’è tanto da imparare, in “Malacqua”, dal suo burocratese venato d’ironia, da romanzo russo. E a leggerlo oggi, oltre le coincidenze e la preveggenza è una storia che conserva una voce e un mondo, caratteristiche principali per uno scrittore, non riscontrabili che in pochi, pochissimi altri. E se, allora, nessuno o quasi si accorse di Pugliese, come mi raccontò: “Di tutti gli scrittori solo Compagnone mi disse quanto gli era piaciuto ‘Malacqua’. Non so quanto abbia pesato il fatto che lavorassi per un giornale di destra e di Achille Lauro, credo che l’invidia abbia fatto di più dell’ideologia”. E di più ancora ha fatto il tempo, negli anni questo romanzo è passato in fotocopia nelle mani di tantissimi, di tutti quelli che volevano capire la città, dopo averla attraversata, desiderata, mancata, con La Capria. Ha superato il tempo e i disastri fino a farsi Bibbia, basterebbe aprirlo a caso per scoprirne la forza o forse basterebbe averne solo memoria come guardarsi allo specchio mentre fuori piove.  

    di Marco Ciriello