Vito Teti

Tutto il mondo in un paese imprevedibile

Simonetta Sciandivasci

L'antropologia del rimanere. Le città fantasma. Le macerie. I vivi. I morti. I vampiri. Il futuro. L'invisibile. Il viaggio in una stanza. Conversazione con Vito Teti

Quest’estate rimarremo a casa. Lo diciamo con cipiglio, con fare da sopravvissuti, derubati di tutto e in tutto stravolti. Lo diciamo quando parliamo delle vacanze che non faremo, dei viaggi a cui rinunceremo, dei voli annullati, dei soldi persi, della noia e dell’angoscia che sentiremo più del caldo. Da anni, per noi, vacanza, viaggio, scoperta e distanza coincidono e né il chilometro zero né il localismo ci hanno disabituati a quello che il lockdown e i suoi surrogati (fase 2, 3, zero, chissà) hanno dimostrato: ci si può spostare da immobili, ci si può incontrare da intoccabili. Il professor Vito Teti, antropologo e ordinario di Antropologia culturale all’università della Calabria, lo ha teorizzato molti anni fa: esiste, nel restare, una possibilità di viaggio esclusiva, inedita, sconvolgente. Alla “antropologia della restanza”, lo studio del mondo più prossimo, quello dei luoghi che si hanno intorno e nei quali si è nati o ci si ritrova a vivere, immersi e a essi sempre più somiglianti, ha dedicato libri, ricerche, tutta la sua vita. I suoi studi più ripresi sono quelli sui paesi abbandonati, quelli che il New York Times a metà giugno invitava a riscoprire, visitare. Lì, tra i paesi abitati da poche famiglie isolate, e dove la relazione con l’altro è stretta, necessaria alla sopravvivenza di sé e dell’ambiente intorno, ha capito che l’antropologia “non può essere entomologia, ma deve essere dialogo, partecipazione al dolore degli altri e sua assunzione su di sè”.

È nato a San Nicola da Crissa, poco più di mille abitanti in provincia di Vibo Valentia, e lì vive. Mi dice: “Da casa mia vedo una specie di mappa delle rovine, lo stretto dove sono state distrutte Reggio e Messina da una parte, e dall’altra i paesi distrutti dai terremoti a partire dal Settecento, e ancora la frana di Maierato”.

 

E come ha fatto, così accerchiato dal disastro, a scrivere un libro sul futuro (“Prevedere l’imprevedibile”, Donzelli)?

“Le società tradizionali come quella nella quale sono cresciuto io e di cui c’è ancora traccia in alcuni paesi hanno sempre tenuto presente che la catastrofe è una possibilità concreta, prossima. Fa parte della vita così come ne fa parte la morte. Mia madre ripeteva spesso che il peggio doveva ancora venire, e non lo faceva per scaramanzia, fatalismo, pessimismo: era un modo con cui ribadiva un dato di realtà, uno dei pochi a nostra disposizione. È proprio perché credo nel futuro, e credo che l’umanità abbia ancora molte chance, strade da percorrere, scelte da fare, che mi sforzo di non dimenticare che tutto potrebbe finire da un momento all’altro e che questa è la condizione umana, non un prodotto recente, una conseguenza di errori che pure abbiamo commesso. Il mondo, da che esiste, porta in sé il germe della fine, così come ognuno di noi, da quando nasce, è esposto alla morte. Il coronavirus ce lo ha semplicemente ricordato, sottolineando anche quanto siamo sguarniti del senso del limite. Ecco, quell’incombenza dell’apocalisse nella quale vivevano le società più antiche, e soprattutto quella contadina, dotavano le persone di un senso del limite che noi abbiamo perso del tutto e che la pandemia ci ha fatto capire che dovremmo riadottare”.

 

Nel suo libro lei ricorda un’osservazione di Ghosh, che agli studiosi e scrittori convinti che gli esseri umani siano intrinsecamente incapaci di prepararsi a eventi insoliti, ha obiettato che non è sempre stato così.

“Ghosh ha infatti parlato di “inconsci schemi di pensiero”, primo fra tutti il buon senso, che si sono affermati con la regolarità della vita borghese. Per lui siamo stati catastrofisti fino a quando non abbiamo cominciato a fondare le scelte di governo sulla statistica e il calcolo di probabilità, che hanno progressivamente cancellato memorie, miti, visioni di chi, nel mondo del passato, aveva idea che la fine, il peggio, l’imprevedibile fossero sempre possibili e da mettere in conto”.

 

Crede che la nostra sia un’umanità ottimista? Non le sembra, invece, annichilita?

“Mi sembra un’umanità distratta. Incapace di affrontare ciò che la terrorizza. Tutti i rimossi più ingombranti, che pure fanno parte della vita, e cioè la morte, la malattia, le catastrofi naturali, sono tornati a mostrarci il conto, a manifestarsi con una concretezza spietata e noi eravamo del tutto impreparati, come se per anni ci fossimo convinti di essere immuni, invincibili, eterni”.

 

E crede che il Covid abbia davvero portato un cambiamento di consapevolezza e quindi di prospettiva?

“Temo di no. Tra le due tendenze forti che mi sembra di aver notato, una a prevedere cosa accadrà e una a sottovalutare ciò che è accaduto, dovremmo trovare un punto di equilibrio nel “Prosperare nel disordine” di cui parla Nicholas Taleb: costruire sistemi adatti a reggere lo shock, a sopportare meglio la crisi che verrà: diventare disastro-resistenti”.

 

L’antifragile.

“Esatto. L’antifragile è ciò che migliora dopo aver subito un danno, attraverso meccanismi di sovra-compensazione. Non rifiuta le crisi, ma le utilizza”.

 

In che modo i piccoli paesi, disabitati, abbandonati, scollegati possono contribuire a fare ciò che lei auspica e, riprendendo Paolo Giordano, definisce come necessità di pensare l’impensabile?

“Bisogna trasformarli, innanzitutto. Da terre del rimorso devono diventare terre vergini, luoghi in cui reiventare nuovi sistemi di sviluppo, sperimentarli. Abbiamo bisogno di costruire una nuova comunità, e cinquant’anni di spopolamento, emigrazione, collassi urbani ci dicono che il modello fordista della città è fallito. Il paese, liberato da inefficienze, ritardi, rapporti clientelari, offrirebbe soprattutto ai giovani molte più possibilità di esprimersi, inventare, connettersi, intessere relazioni. Mi capita spesso di parlare con miei studenti che vivono in paesini minuscoli, spesso sono i soli, insieme alla propria famiglia, a vivere in un intero centro. E non intendono andare via. Quello che ritengo concretamente possibile è trasformare questi ultimi abitanti di un vecchio mondo nei fondatori di un nuovo mondo, una nuova comunità. Soltanto loro potrebbero attrarre altre persone, inventare nuove economie e nuove forme di socialità. Ogni paese ha delle risorse che può valorizzare. Ci sono alcuni centri calabresi dove vive una persona e basta: io di quell’unico essere umano farei un museo. Niente di tutto questo ha a che fare con il turismo sui luoghi dell’abbandono, che adesso è molto in voga e che non salverà quel mondo dall’estinzione. Anche perché non è vero che è un mondo bello: è un mondo che possiamo far diventare bello”.

 

Serviranno infrastrutture?

“Serviranno esseri umani, soprattutto. Quando Franceschini dice che parlare ancora del ponte non pone più un problema ideologico, sbaglia: il problema è sempre stato e sempre sarà ambientale. Possiamo riavviare i piccoli paesi connettendoli meglio tra loro, migliorando i trasporti senza cementificare tutto, risparmiandoci di recuperare palazzi a caso: gli interventi isolati non producono che nuove rovine destinate a diventare presto macerie”.

 

Io in un minuscolo paesino del sud non ci vivrei mai e poi mai, sa? Neanche se ci fossero rassegne a ogni ora, treni, librerie, supermercati aperti 24 h, laboratori, bassissima mortalità, neanche se fosse Natale tre volte, neanche se il distanziamento sociale dovesse diventare legge eterna ed evitare gli assembramenti metropolitani dovesse rubarmi più ore di quanto me ne rubi adesso il traffico. Sono una provinciale: ho bisogno della città.

“Ci sono due modi di essere provinciali. Uno è credere di vivere laddove tutto accade, ed è una convinzione tipica di chi vive in città e, più in generale, in occidente. L’altro è credere che il posto in cui si è nati e si vive sia irrilevante e che per capire come funziona il mondo si debba lasciarselo alle spalle e partire, allontanandosene il più possibile, come se le possibilità di comprensione della realtà aumentassero con i chilometri che si percorrono. Invece a volte un fatto minuscolo, accaduto in un posto dimenticato da tutti, contiene e descrive la realtà più dei grandi avvenimenti che leggiamo sui libri di storia o sui giornali. Quando decisi di tornare in Calabria, avevo capito che restare può essere un modo di vivere e abitare. Da allora, in tutti questi anni, ho cercato comunque di mantenermi esule in patria: amare il paese tenendolo a distanza. Viaggiare così come restare devono essere due forme di libertà. Ai nostri ragazzi dovrebbe essere assicurato il diritto ad andare via ma pure quello a restare, senza sensi di colpa, rimorsi, e godendo di pari opportunità nell’uno e nell’altro caso”.

 

Per i suoi colleghi antropologi lei è una specie di alieno?

“Le dirò, quando vado a trovarli a Roma, a Milano o a Toronto, mi pare che facciano una vita più angusta della mia. Non mi sembrano dei giramondo, ecco. Amo molto viaggiare, e ho sempre giocato sulla mia scelta di restare in Calabria, di muovermi poco, studiare il vicino e non il lontano. Del resto, non c’è bisogno di andare a Tokyo per soffrire il fuso orario e gli insonni lo sanno benissimo”.

 

Pochi mesi prima che arrivasse la pandemia e ci ritrovassimo a dar la colpa ai pipistrelli e a parlare di vampiri, lei aveva ripubblicato un suo saggio sui vampiri (“Il vampiro e la melanconia”, Donzelli).

“Il vampiro incarna il doppio perché è vivo e morto, anzi è non morto. Prima del coronavirus la sua rappresentazione era tornata molto forte, presente, e ci serviva sia come antidoto alla tristezza che ci derivava dalla fine dell’umano che alcune narrazioni, non solo letterarie, continuavano a servirci, sia a ritrovarci nella sua fame, nella sua passionalità e anche nel suo sradicamento. Ma il vampiro è anche una figura di raccordo tra vita e morte, un raccordo che non dobbiamo fuggire e che non deve spaventarci, e dal cui immaginario dobbiamo espungere la paura. Con i morti, così come facevano le società più antiche e tradizionali, dobbiamo restare in dialogo, trattarli come fossero vivi. La metamorfosi del vampiro in animale rinvia a una negatività radicale, al rischio che l’uomo possa trasformarsi in bestia, indica una regressione a un livello primordiale e selvatico di esistenza”.

 

L’identità si può scegliere?

“Non sempre. L’identità è quello che costruiamo dinamicamente nell’incontro, non è un dato astorico o metafisico. In parte, la ereditiamo da chi ci ha preceduto. Questo significa che la nostra scelta avviene all’interno di una serie di possibilità che non creiamo noi. Mi viene in mente Alvaro, quando diceva che l’uomo è responsabile del suo tempo. Ecco, credo che l’uomo sia anche responsabile dell’identità che sceglie, assumendosi quelle da cui discende, per proseguirle”.

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