Chi era Carlo Scarpa?

Manuel Orazi

Un libro celebra l’opera del grande architetto a Zurigo, un atto d’amore che si fa poesia

Un paio di mesi or sono, poco prima che la bufera del virus corona divampasse, Cristopher Bollen sul New York Times Style Magazine si è chiesto: “Chi era Carlo Scarpa?”. Domanda retorica su un architetto tanto celebrato dopo la morte quanto deriso e vilipeso in vita, basti pensare alle cause intentategli dall’Ordine degli architetti per tutta la vita (come Le Corbusier non era laureato) e agli insulti degli studenti ideologizzati veneziani negli anni Settanta: restano pagine nere incancellabili. Bollen però ha preso un granchio attribuendogli una villa poco nota, Casa Tabarelli, realizzata vicino a Bolzano alla fine degli anni Sessanta, quando cioè era già impegnato nella sua opera mondo, la tomba Brion al cimitero di San Vito d’Altivole. Il maestro veneziano lasciò la realizzazione della Tabarelli a un suo allievo, Sergio Los, prima di partire per il Canada dove era impegnato nel padiglione italiano all’Expo di Montreal del 1967, quello della futuristica sfera di Buckminster Fuller. Al di là dell’errata attribuzione, forse viziata da interessi collezionistici o forse frutto solo di un pregiudizio, l’architetto Los in un passaggio della lettera aperta in cui rivendica le sue ragioni fa notare giustamente che “una conoscenza superficiale del linguaggio di Scarpa lo confonde con una serie di ‘scarpismi’ stilistici, dovuti più all’opera dei suoi artigiani che al disegno scarpiano”.

 

I suoi dettagli sono infatti maniacali, così accurati e frutto di un dialogo costante coi maestri artigiani talmente fitto e capzioso che Scarpa si autodefiniva per questo un architetto bizantino. Del resto Los è stato non solo allievo e poi assistente del maestro veneziano, ma anche l’autore del primo libro a lui mai dedicato, l’introvabile Carlo Scarpa architetto poeta (Cluva, Venezia 1967), in cui compare il termine da lì in poi affibbiato a Scarpa, quello di poeta, che apparentemente gli riconosceva considerazione ma che nei fatti ha contribuito a isolarlo come un professionista diverso dagli altri, bizzarro, eccentrico, fatuo come i suoi foulard. Fra l’altro Los aveva già aiutato il maestro per un progetto precedente, l’unico all’estero, ora sviscerato per filo e per segno da un prezioso volume di Davide Fornari, Giacinta Jean e Roberta Martinis, Carlo Scarpa. Casa Zentner a Zurigo: una villa italiana in Svizzera (Electa, 45 euro). Qui, specie grazie a Martinis che ricostruisce raffinatamente un delicato intreccio artistico e affettivo ricco di sfumature, emerge tutto il debito scarpiano verso Savina Rizzi Zentner (1925-2010) già vedova di Angelo Masieri. Questi infatti, allievo prediletto di Scarpa e come lui adepto al culto di Frank Lloyd Wright, dopo la laurea decide di investire le sue cospicue fortune imprenditoriali in un progetto sul Canal Grande affidato direttamente al maestro americano – Masieri muore giovanissimo in un’incidente automobilistico mentre va a trovarlo a Taliesin nel 1952. Non se ne farà niente naturalmente, Antonio Cederna e Italia Nostra insorgono con la solita tiritera dello sfregio alla storia e della mancanza di raccordo con il famigerato “contesto” veneziano, nonostante che a difendere Wright non ci siano dei pericolosi palazzinari, ma proprio i massimi storici dell’architettura e dell’arte attivi in laguna cioè Bruno Zevi, Giuseppe Mazzariol e Sergio Bettini.

 

Altri tempi, quando gli storici avevano un preciso senso del futuro possibile di una città. Proprio Bettini nel 1954 aveva scritto di Wright a Venezia in un modo che si potrebbe applicare tranquillamente anche all’operato di Scarpa a Zurigo: “Ogni suo particolare anche minimo – ogni ‘limite’ figurativo posto all’informe spazio astratto – (una parete, una scala, uno stipite, una finestra), è un’immediata creazione: ha in sé la presenza, la vibrazione trepida del ‘sentimento’, la ‘novità’ imprevedibile di ogni immagine di arte vera: che noi possiamo cercar di ridurre con ogni sottigliezza critica alla logica di una poetica: ma vi riman sempre, se Dio vuole, quel residuo irriducibile, che è, appunto, la poesia”. Resta la caparbietà di Savina Rizzi, friulana come Masieri, che anche in seconde nozze gli resta idealmente fedele attraverso la committenza al più wrightiano d’Italia, Scarpa, un atto d’amore che inevitabilmente si fa poesia.