Un’immagine di “Hugo Cabret”, film del 2011 diretto da Martin Scorsese (01 Distribution)

Lo sbadiglio letterario

Gaia Manzini

Un pozzo scuro che si apre al centro del viso. Contagioso e mistico, racconta il battito del tempo

In questi giorni di reclusione non faccio altro che lavorare e sbadigliare, leggere e sbadigliare, cucinare e sbadigliare, telefonare e sbadigliare. E’ una questione di tempo; è sempre una questione di tempo.

 

Marianne aveva trascorso l’intera vita a High Point Farm, nella grande vecchia casa popolata di orologi. Ce ne era uno in ogni stanza, su ogni parete, mensola, tavolo: nessuno sincronizzato con gli altri. Ad High Point Farm non esisteva il tempo, ma i tempi. Lancette che battevano l’ora, la mezz’ora, il quarto d’ora quando volevano. Le amiche che la andavano a trovare le chiedevano sempre “Come fai a sapere qual è il tempo reale?”. Sorrideva Marianne: il tempo reale era solo in cucina, custodito dall’orologio elettrico del papà. Forse Joyce Carol Oates pensava all’orologio di Baudelaire, quando ha scritto le pagine di Una famiglia americana: (Tremilaseicento volte l’ora, il Secondo / mormora: Ricordati!”). La giovinezza spezzata di Marianne Mulvaney inizia a bruciare proprio così: dall’angoscioso fastidio di quel ticchettio famigliare. Perché è il ticchettio che ci riporta dentro la vita. Non lo si ascolta mai di proposito; Quentin Compson, l’amatissimo personaggio di Faulkner, lo sa bene. Non ci si mette certo ad ascoltare una pendola o un orologio: no, non occorre. Ci si può scordare quel suono per un pezzo, poi basta pochissimo e allo scoccare di un solo secondo si ricrea nella mente tutta la lunga impalpabile maratona del tempo che non hai avvertito. E allora capita che sia una scoperta terribile; o almeno lo è stata per Quentin, nell’Urlo e il furore. Il nonno gli aveva regalato l’orologio non certo perché si ricordasse del tempo, ma perché se ne potesse dimenticare per un attimo e non sprecasse energie nel tentativo di vincerlo. Tanto più che le battaglie, diceva il nonno, non si vincono mai. Ma lui era più saggio, la sapeva più lunga di Quentin e di tutti noi.

  


Quando arriva è irrefrenabile, annulla ogni espressione dal viso, si apre un varco e ci trasforma in una O grandissima. Il duca de l’Omelette di Edgar Allan Poe con uno sbadiglio si ritrova nella casa del re degli inferi. E poi lo sbadiglio di Lolita


 

Se dentro il tempo c’è il nostro senso di sconfitta, l’angoscia di vivere ma anche il desiderio di proiettarsi verso il futuro, appena fuori ci sono solo sbadigli. Sbadiglio quando perdo il senso di me stessa sul divano e scivolo in un altrove che poi non saprò descrivere davvero, che rimarrà per sempre garzato nella nebbia. Sbadiglio quando ritorno da quell’altrove e inizio nuovamente a sentire il ticchettio dell’orologio. La coscienza è contornata da un unico grande sbadiglio. Che quando arriva è irrefrenabile, annulla ogni espressione dal viso, si apre un varco e ci trasforma in una O grandissima.

 

Da bambina vivevo in un appartamento luminoso. Conoscevo solo i vicini del piano di sotto, erano amici dei miei genitori e avevano due figli poco più grandi di me. Sopra di noi invece viveva una coppia, un uomo e una donna, ma io non li avevo mai visti; sospettavo che non li avesse mai visti neanche mia madre. Eppure c’erano. Sentivo i loro passi, passi continui e notturni, oppure mattutini; passi di legno e di cuoio che percorrevano la loro grande casa. Sentivo l’acqua che scorreva di continuo, li immaginavo immersi in un’enorme vasca da bagno con bolle di schiuma altrettanto grandi. E poi, quando calava la sera, e la città era raggiunta dalla calma, sentivo lo sbadiglio. Non avrei saputo dire se maschile o femminile, ma enorme: un gigantesco – protratto – boato. Iniziava con una O che andava trasformandosi in una A quasi ferina: uno squarcio terrificante nel silenzio, una specie di smagliatura del tempo che sarebbe stata capace di inghiottire qualunque cosa, compresi i vicini di casa. Compresi noi, compresa me con tutto il mio lettino, i pupazzi, la macchina di Barbie che mi avevano appena regalato. Chissà se il mio vicino si stava svegliando o stava entrando in un incubo?

 

Il duca de l’Omelette di Edgar Allan Poe con uno sbadiglio si ritrova in una casa sontuosa con una lampada di rubino, nicchie con statue gigantesche, pareti di porfido, un rogo che si vede dalle vaste vetrate delle finestre. La bellezza e lo sgomento. No, non è un sogno, è solo morto dopo aver mangiato un’oliva e ora si trova a casa del diavolo. Il re degli inferi lo invita a sedersi e a tagliare il mazzo di carte appoggiato a un tavolo. Perché c’è sempre una sfida e una nuova dannazione, una briscola e uno sbadiglio dell’orrore.

 

Altrettanto spaventoso è lo sbadiglio di Lolita: è l’orrore di chi non conosce, non sa i confini del bene e del male – lei candida e innocente, prelevata da Humbert Humbert al campo estivo, portata in un albergo lungo la strada, ignara della morte della madre; lei ancora bambina, ma con la seduttività indolente di chi ancora non mette a fuoco il potere ritorsivo delle proprie armi. Eccola in preda a un sonno improvviso al ristorante dopo una fetta di torta alle ciliegie. L’ultima giornata trascorsa con i suoi coetanei non c’entra nulla: non c’entra il lungo tratto in canoa della mattina, non l’aria aperta né il viaggio in macchina. Il suo è il sonno indotto dal sonnifero del patrigno. La mano davanti alla bocca per frenare lo sbadiglio prima dell’oblio e l’eroina di quel romanzo terribile e bellissimo è come la principessa di una fiaba: sul punto di cadere in un incantesimo, di precipitare in un sonno inestricabile. Ma non sarà un principe azzurro a svegliarla.

 

Quando ero una ragazzina, la scuola ci portava in vacanza per quindici giorni a Iesolo. Si giocava a pallavolo, a calcio, si andava al mare e ci si dava i turni in cucina e in giardino. Avevo quattordici anni e non mi ero ancora innamorata, o meglio: nessuno si era ancora innamorato di me. Non c’era nulla che desiderassi di più, nulla che mi facesse mettere in dubbio di più le mie vere o presunte qualità. Dovevo proprio essere bruttina e sgraziata, probabilmente era colpa della mia voce, o dei miei denti sempre troppo grandi, troppo scoperti dal sorriso. Cercavo di essere simpatica, di dare una mano, di cogliere le battute e ridere per prima, ma nulla di queste sofisticate strategie sembrava funzionare. Nulla sembrava tanto efficace quanto l’atteggiamento della compagna più ammirata, che tutti chiamavano Bet. Camminava lenta per il viale che arrivava al mare con la maglietta sgualcita, il collo dritto, lo sguardo che poteva sembrare assorto, ma era semplicemente annoiato. Era un tipo di noia generica la sua, un’indolenza esibita che diceva quanto il mondo esterno le fosse indifferente (e quanto eroico sarebbe stato colui che l’avesse conquistata). Lo sbadiglio non era mai palese, ma trattenuto. Il semplice dito indice che arrotolava una ciocca di capelli emanava un fascino magnetico. Lo stesso di Lady Mary in “Dowton Abbey”, l’acclamata serie inglese. Nulla la diverte sul serio, nulla la fa sorridere o davvero arrabbiare, nemmeno la sorella che svela il suo bruciante segreto. Nulla nel suo sguardo fa trapelare il suo amore per Matthew Crawley; e anche nella disperazione la postura rimane la stessa, quella di una sinuosa canna al vento. Perché il tormento, se c’è, è sempre interiore. Più grande è la compostezza esterna e più violente sono le correnti che si scontrano dentro. E’ per quello che Connell, in Persone normali di Sally Rooney, ama Marianne (un’altra Marianne!). Perché a Marianne di quello che c’è intorno non interessa nulla. Non le interessa che i compagni del liceo la considerino strana o diversa; non è dipendente dal giudizio degli altri. A Connell ci vorranno anni per ammettere quello che davvero prova per lei. D’altronde Marianne è il suo tipo, anzi il modello originario del suo tipo e non potrà che amarla per sempre: elegante, annoiata, come solo sa essere chi ha una perfetta fiducia in sé.

 


Sono giorni in cui non facciamo altro che familiarizzare di nuovo con quell’attività così umana e animale, così personale. Emma Bovary sapeva fingere tanto bene che suo marito non poteva trattenersi dal toccare il suo pettine, i suoi anelli, la sua sciarpa


 

“A seconda di quello che diceva, la sua voce era limpida, acuta, oppure si velava improvvisamente di languore, strascicava modulazioni che finivano quasi in un mormorio quando ella parlava a se stessa; ora gaia, sbarrando occhi candidi, ora con le palpebre socchiuse, lo sguardo annegato nella noia, il pensiero vagabondo”. Emma Bovary sapeva fingere, sapeva fingere tanto bene che suo marito non poteva trattenersi dal toccare il suo pettine, i suoi anelli, la sua sciarpa. Prima di sposarsi, Emma aveva creduto d’amare, aveva sperato che da quell’amore indotto sarebbe scaturita la felicità, ma poi non era successo, doveva essersi sbagliata. Non faceva che pensare a questo: che qualcosa non era andato per il verso giusto. Nulla riusciva a convincerla del contrario; nemmeno tutti i vestiti, gli oggetti, i frustini, i cappelli comprati da Lheureux fino a indebitarsi. Nulla poteva riportare calore nel suo petto freddo. Cosa serviva continuare a cercare oltre Léon, oltre Rodolphe, oltre le sue illusioni d’amore, oltre tutte le menzogne? Per lei ormai “ogni sorriso nascondeva uno sbadiglio di noia, ogni gioia una maledizione, ogni piacere il suo disgusto”. Sbadiglia Emma, sbadiglia di continuo nel suo cuore, mentre finge di vivere.

 

“Certo, dalla noia che cosa non s’inventa? Infatti io, per esempio, non mi meraviglierei per nulla se a un tratto, di punto in bianco, in mezzo all’universale saggezza futura sorgesse un qualche gentleman dall’aspetto ignobile o, per meglio dire, retrogrado e beffardo, che si mettesse le mani sui fianchi e dicesse a noi tutti: ebbene, signori, non dobbiamo buttar giù tutta questa saggezza d’un colpo, con una pedata, mandandola in polvere, col solo scopo che tutti questi logaritmi se ne vadano al diavolo, e che noi si possa di nuovo vivere secondo la nostra sciocca volontà?”. Sbadiglia disperato Dostoevskij dal sottosuolo sognando una noia sovversiva, e sbadiglia anche il Grande Inquisitore, stufo di ogni vecchia tradizione morale. Sbadiglia Zeno Cosini tra una sigaretta e l’altra. Sbadiglia Dave, il cane di coda, leale e saggio, che nel Richiamo della foresta è, insieme a Sol-leks, il maestro di Buck; sbadiglia che sembra un uomo. Sbadigliamo tutti, ma ognuno a modo suo.

 

“Anch’io soffro e sempre soffrirò, dato che ho perso quanto ho di più caro: la mia reputazione e mio figlio. Ho sbagliato. Per questo non voglio la felicità né il divorzio e per questo voglio soffrire per la vergogna e la lontananza di mio figlio”. Quando Anna e Vronskij tornano a Pietroburgo dopo la loro fuga, lei chiede di vedere Serëža. Il figlio di Anna non ha creduto alla morte della madre neanche un secondo. Tra i suoi giochi preferiti c’era quello di cercarla durante le passeggiate: strizzava gli occhi nel tentativo di mettere a fuoco ogni figura tra la folla e gli sembrava di ritrovarla sempre in una chioma di capelli neri o in un vestito elegante. E’ sicuro che la rincontrerà, tanto è ancora vivido il ricordo di lei che gli faceva il solletico. Il giorno del suo compleanno è nervoso, fantastica su cosa sia il regalo, non si concentra sui compiti, perché per il suo decimo compleanno vorrebbe solo rivedere la sua mamma. Il giorno dopo è Anna a fare irruzione in casa. Arriva presto, molto prima che Karenin si svegli. Non si cura dei domestici che tentano di fermarla e si affretta sulle scale. E’ trepidante di emozione, ha il dubbio che il suo bambino stia ancora dormendo. Ma prima di arrivare alla stanza, sente uno sbadiglio. E da quello lo riconosce, ancora prima di vederlo dopo così tanti anni. In un attimo è da Serëža. Piangono si abbracciano, si baciano. E’ l’ultima volta che lo vedrà.

 

Sbadiglio alla finestra e passo il mio sbadiglio al mio dirimpettaio. E’ uno scambio immediato, personale, ha qualcosa d’impudico. Molti anni fa girava uno spot tra gli appassionati. Era la pubblicità di un marchio straniero di telefonia. Partiva da un uomo in un ufficio che sbadigliava e, di bocca in bocca, seguiva il contagio veloce di quello sbadiglio che scendeva per strada, saliva sui mezzi pubblici, s’infilava in un ristorante, fioriva sul volto di un ragazzo, una donna, un bambino, un operaio, un uomo in cravatta, una signora col cane; non si esauriva. Infine ritornava dal legittimo proprietario: il primo che aveva sbadigliato. Communicate diceva il pay off, o qualcosa del genere. Comunicate. E’ strano parlare di contagio e di comunicazione in questo periodo in cui non possiamo uscire, non possiamo incontrare nessuno e nessuno abbracciare per davvero. Sono giorni in cui il tempo cola da tutte le parti e non facciamo altro che familiarizzare di nuovo con quell’attività così umana e animale, così personale che è sbadigliare. Non è un tic, non qualcosa di residuale, ma il confine della nostra quotidianità. Quel pozzo scuro che si apre al centro del nostro viso racconta dell’intermittenza della coscienza e del tempo, del mistero dell’esserci e l’attimo dopo di non esserci più. Della voglia insopprimibile che abbiamo di dimenticarci di noi stessi, per continuare a vivere e cercare di essere felici.

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