Il registra Andrej Tarkovskij sul set del film "Stalker", girato nel 1979

Una preghiera per Tarkovskij

Micol Flammini

La Russia, l’infanzia e le icone. Un film sul grande regista che non sapeva concepire l’arte in assenza di Dio

Il tempo dei bambini sembra eterno. Pare che i loro giochi e sguardi si muovano al rallentatore, che i loro pensieri siano infiniti, che i loro gesti, le loro corse, i loro sorrisi durino per un tempo indefinito. Immortale. Così è il tempo del ricordo, non è immobile, si muove lentamente, sospirando. C’è solo luce, luce mattutina anche di notte, nella vita dei bambini. L’infanzia è una ricerca della vita, è la sua celebrazione. I bambini la vita la vedono ovunque, nelle ombre, nell’acqua, nel vento, in un sasso, in una sedia, nell’erba. L’infanzia è piena di giardini e di natura ed è da lì che inizia la vita di Andrej Tarkovskij: dalla natura. Nel film, presentato a Venezia e uscito nelle sale a gennaio, Andrej Tarkovskij. Il cinema come preghiera – che è un film con Tarkovskij, su Tarkovskij e per Tarkovskij – si incomincia da lì, dal primo ricordo, dalle prime parole, quelle ti rimangono addosso e che non ti togli più. Si inizia dalla prima domanda che vorremmo fare a un artista come lui, che nei suoi film mostra tutto, anche l’invisibile. Come si diventa artisti? Da dove l’arte? L’arte viene da quel tempo disteso e infinito che è l’infanzia, quel momento che ti crea, ti scolpisce dall’interno. L’artista è questo, una statua convessa. Si entra nel film con i versi di Arsenij Tarkovskij, padre di Andrej – ed essendo l’opera un’idea del figlio del regista russo, anche lui Andrej, questo film abbraccia tre generazioni di Tarkovskij – che raccontano di un ritorno. Di foglie, di pianti, di gelsomini, di sentieri. “Non sono mai stato più felice di allora / Non sono mai stato più felice di allora / Là non si può ritornare e non si può nemmeno più raccontare / come era stracolmo di beatitudine / quel giardino di paradiso”, quell’infanzia che, attraverso i versi di Arsenij, ha costruito il regista Andrej. Il film è un percorso in cui parla soltanto Tarkovskij, in cui si spiega e si racconta, le scene dei suoi film si intrecciano con spezzoni della vita del regista, fotografie di famiglia, dei luoghi di una vita, le case in campagna, le chiese, gli appartamenti in Italia. I posti di un’esistenza che Tarkovskij conclude da esule. Si parte dal film “Lo specchio” e dal primo ricordo del regista: era il 1933, aveva un anno e mezzo e in quel ricordo pieno di vento, di natura, spunta un aeroplano. Erano gli anni del dopoguerra, che Tarkovskij visse in povertà, sua madre cercò comunque di dare a lui e a sua sorella tutta l’arte di cui avevano bisogno. Lezioni di pittura, di musica: senza “non sarei mai diventato un regista”, confessa. Sono quelli gli anni della formazione, gli anni in cui la scultura Tarkovskij inizia a prendere forma. C’era anche la fame, Tarkovskij ricorda anche quella.

 

La Russia di quegli anni è la stessa nazione per tutti, è una nazione piena di ideali e anche di paure, era una nazione che andava, marciava, camminava e si apprestava a diventare enorme e pesante. Era però una nazione sofferente e spirituale, che il regista nei suoi film racconta senza rimproveri: forse anche senza la Russia non sarebbe mai diventato un regista.

 

I suoi film sono fatti di ricordi e di sogni, strutture labili che nascono da immagini ultraterrene e in “cinema come preghiera” il regista spiega l’importanza della memoria, che ha un valore enorme per l’uomo ma è anche l’essenza dell’arte. E’ nella memoria che nasce la fantasia, è nella memoria che si sedimenta l’immaginazione. Racconta Tarkovskij che quando suo padre Arsenij andò via di casa, lui aveva tre anni. Il padre a volte tornava di notte e in cucina si metteva a litigare con suo madre, voleva che Andrej crescesse con lui. Le urla soffocate che il bambino sentiva la notte sono poi diventate le parole del film “Lo specchio”, tutto torna a galla, tutto riemerge in pellicola, anche la paura di quella richiesta paterna rimasta tra i denti e mai pronunciata nella realtà. Nonostante i versi di Arsenij, per stessa ammissione di Andrej, siano diventati negli anni l’ossatura dell’arte del regista, e anche il respiro e il suono, è a sua madre che Andrej dice di dovere molto. Il padre era l’inafferrabile, il desiderio, l’attesa. La madre era la realtà, la quotidianità, la storia e l’infanzia e il Tarkovskij bambino è il suggeritore del Tarkovskij regista. Nella sua opera infatti i bambini sono spesso fonti di saggezza, sono spiriti, sono gli artisti, i filosofi, i sognatori. Il bambino è colui che si riflette nella realtà e nella storia senza uscirne distorto, il bambino è integro, pieno, è in divenire. La capacità dell’infanzia di dare risposte è incosciente, il bambino non sa di essere il saggio, lo è. Spesso da loro arrivano le risposte, è a loro, ammette Tarkovskij, che bisogna rivolgersi quando non vengono le parole. I bambini le parole le trovano e se non le trovano le inventano, le sentono, le esprimono. 


“Andrej Tarkovskij. Il cinema come preghiera” è un film sul regista e con il regista, pensato da suo figlio, Andrej anche lui


 

Andrej Tarkovskij si diploma alla Scuola di cinematografia di Mosca (Vgik) nel 1961 con un mediometraggio che già contiene molti degli aspetti del suo cinema: Il rullo compressore e il violino, fatto di specchi rotti, di silenzi, dominato dalla figura di Sasha, un bambino, e dallo scorrere del tempo. In Tarkovskij il tempo è abitato, non c’è fretta, sembra di sentire i secondi e i loro millesimi. Il primo lavoro che gli viene affidato è L’infanzia di Ivan, film tratto da un racconto di Vladimir Bogomolov. La Mos’film aveva cacciato il precedente regista, e quando arrivarono a Tarkovskij, dopo una serie di rifiuti, il regista era giovanissimo, freschissimo di studi cinematografici, ma pose le sue condizioni. Per lavorare voleva una troupe tutta sua, voleva che quanto fatto prima del suo arrivo venisse cancellato, voleva che tutti, attori, macchinisti, tecnici e costumisti, venissero mandati via. Voleva poter fare come voleva. Ti daremo poco, lo avvertirono. Ma nel nome di una totale libertà dietro la macchina da presa, Andrej accettò e girò uno dei suoi primi capolavori. C’era un bambino. C’era quel mondo di specchi e di acquitrini che tornerà con più violenza in altre sue opere. Venne fuori un film sognante e spirituale, talmente al di fuori degli schemi sovietici che non poteva nemmeno essere definito antisovietico. Il regime non lo capì, e quindi lo apprezzò. Racconta Tarkovskij che il suo sviluppo cinematografico avvenne in un periodo strano della storia russa, era il disgelo di Krushev e tutta l’Unione sovietica aveva una gran voglia di parlare, di raccontare, di esprimersi, di dire le cose che nell’epoca di Stalin si era tenuta dentro. Venne fuori che tutta la Russia era piena di storie, voleva tirare fuori tutto, raccontare. A questa ansia partecipò anche Tarkovskij, con la sua arte nuova nella quale diventa di volta in volta più presente il tema della spiritualità. Tutta la sua arte sembra un continuo domandarsi: da dove veniamo? Dove andiamo?

 

È una continua dipendenza dal Creatore, ci sono momenti nel suo cinema in cui il girare un film sembra ricalcare il processo di pittura di un’icona. “Le icone non sono mai firmate”, dice il regista, perché le icone vengono per volontà di Dio. Nessuno può vantarsi di aver dipinto bene un’icona, perché la sua riuscita non dipende dall’uomo. La fissità delle icone e la religiosità trovano spazio in tutto i suoi film. Andrej Rublev è un pittore di icone e il film è forse la sua opera più religiosa, eppure venne contestata dal regime per le numerose scene di violenza. Se l’arte è il tentativo di trovare una connessione con Dio, nessun artista gli arriva più vicino del pittore di icone e, in parte, del poeta. La parola per Tarkovskij è fondamentale, e come il pittore di icone è colui che, guidato dallo mano di Dio, riesce a dar forma all’inesprimibile, il poeta è invece chi insegue la parola, anzi, che la precede, è colui che tenta di esprimere la parola perfetta. Il film è un continuo interrogarsi sul senso dell’arte, è una preghiera, dice il regista, e la definizione è così intensa che è diventata poi il titolo del film. 


La religiosità ha sempre spinto Tarkovskij ad ammirare Tolstoj che credeva senza dubbi. Ma spesso la sua opera ricorda Dostoevskij


 

Ma un artista è anche un servitore, l’artista è uno schiavo, è una persona che mette a disposizione degli altri il suo talento: “Servire è l’unica vera forma di relazione”. L’artista non parla in quanto individuo, ma in quanto umano. Non per se stesso, ma per gli altri. Questa forma di riflessione la ritroviamo in tutti i film, in cui gli esseri umani non ci sembrano mai del tutto umani.

 

Si muovono per il mondo come intrusi, inseguono, cercano, seguono mondi paralleli. Riempiono la vita di istanti. I suoi personaggi, così spirituali, così grandiosi e così sofferenti, non sono mai egoisti, sono spesso al servizio di altri. Sicuramente sono al servizio dello spettatore. Sono mezzi. In Stalker per esempio, il protagonista è un uomo che esiste al di fuori della storia. Ha trovato il suo universo e la sua funzione alle porte di un mondo parallelo, la Zona. Lì scioglie le sue paure, vive dentro un reticolato e dice di non essere in grado di uscire, quello che avviene fuori dal reticolato è ormai corrotto. E’ orgoglioso della Zona, è orgoglioso del fatto che punisca chi non la rispetta. “Io sono un verme”, dice Stalker, che sa di essere un mezzo. Nel film Tarkovskij parla spesso di Tolstoj, lo definisce un genio, un artista, eppure sembrano frequenti nella sua opera dei richiami a Dostoevskij. anche l’opera di Dostoevskij è popolata di vermi e Stalker ricorda l’Idiota in preda alle sue auree, l’Idiota che però contrariamente agli altri è più vicino a Dio. Stalker rappresenta la “dipendenza dell’uomo dallo spirito che lo ha generato”, così erano anche i pittori di icone, così sono gli artisti. 


L’infanzia, la natura, i versi del padre poeta e le cure di sua madre. È il bambino ad aver ispirato e scolpito il futuro regista


 

La religiosità è uno dei motori del cinema di Tarkovskij e uno dei motivi che lo hanno sempre spinto ad ammirare Tolstoj. Tarkovskij era un credente, come lo era Tolstoj, Dostoevskij invece, per il quale il legame tra Dio e la Russia era strettissimo, nutriva dei dubbi. Tarkovskij non li ha e in questo ricorda più il padre di Anna Karenina che quello di Raskol’nikov. Per il regista russo non esiste l’arte senza l’ultraterreno e questo modo di credere e di sentire la religione in modo intenso, spirituale, questa continua ricerca, Da dove viene? dove vai?, non è soltanto quello che fa di un artista un artista, ma anche ciò che fa di un russo un russo. La tumultuosa religiosità del popolo russo si lega a un altro concetto che Tarkovskij declina in questo film testamento, che sovrappone immagini, parole, ricordi, pensieri, ed è il concetto di libertà. Da russo cresciuto in Unione sovietica si definiva libero, la sua ossessione per Amleto, ossessione che lo assimila a tanta tradizione letteraria del suo paese, si lega proprio al concetto di libertà, “ho conosciuto molti uomini cresciuti in democrazie che non erano liberi”, la libertà viene dallo spirito, ti rimane addosso e non va confusa con i diritti. “La libertà non può essere tolta, i diritti sì”, dice Amleto o lo dice Tarkovskij? Forse tutti e due. 

 

In Il cinema come preghiera il mondo di Tarkovskij ci appare affollato di immagini e di parole, di parole è fatto il suo rapporto con il padre, di immagini il suo rapporto con la natura, di silenzi il suo rapporto con il resto del mondo. Guardare, osservare raccontare, pregare. Per il regista russo girare i film è un modo per raccontare non se stesso ma l’umanità e i suoi sentimenti,. Nostalghia, girato in Italia, in Toscana, è dedicato un sentimento che lui definisce “totale”. E’ un film umido, un film sospeso, un film di ricerca. Un film che cambierà molto della sua vita personale. Non tornerà più in Russia, Nostalghia venne definito antisovietico dal sistema ormai morente. 


I personaggi dei suoi film sono spirituali, grandiosi, sofferenti, liberi. La libertà non viene dai diritti, dice Tarkovskij, ma dallo spirito 


Il film, costruito dal figlio Andrej, si riavvolge su stesso, si ferma a un centimetro dalla morte, quasi al baratro. Sappiamo che la fine c’è, Tarkovskij morì a cinquantaquattro anni, ma il film non ce la lascia vedere. Il capitolo conclusivo si intitola “L’eterno ritorno”, e in questo continuo riscrivere i ricordi, metterli su pellicola, trasformarli in parole che è stata la vita di Tarkovskij non c’è spazio per la fine. Il ricordo, che per la sua arte è stato così importante – ricordava tutto, lo ricordava dai primissimi anni di vita come la sensazione del vento a un anno e mezzo – è un modo per vivere in eterno, per estendere il tempo, come nell’infanzia. Così sono i suoi film, infiniti, sospesi, universali. La morte nel film non arriva, Tarkovskij dice di andarle incontro senza paura. Il cinema come preghiera si riavvolge, torna indietro, si ripete, è uno specchio capovolto, ci mostra un Tarkovskij che torna bambino nel suo letto materno, nella sua casa di campagna, con il suono della natura da cui diceva che tutti noi siamo arrivati. È un eterno ritorno e mentre noi rimaniamo ad origliare i suoni e il respiro della vecchia vita, questo viaggio dentro al cinema di Tarkovskij ci lascia con il tempo, il nostro e dell’arte, tra le mani e con una domanda: da dove veniamo? Dove andiamo?

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