Foto tratta dalla pagina Facebook di Ici Même Editions

Tra boschi e terremoti si ritrova la religiosità narrativa di Giacomo Nanni

Gianmaria Tammaro

Un capriolo, i cacciatori, i dintorni di Amatrice mentre la terra trema. Parla il fumettista e illustratore che al Festival di Angouleme ha vinto il premio L’Audacia

“C’era una storia che mi aveva colpito in modo particolare: quella di un capriolo che si era rifugiato nei pressi di un centro commerciale e che aveva fatto amicizia con le persone. E poi c’era il terremoto di Amatrice. Ho messo insieme queste due cose, in un racconto corale. E a un certo punto, è proprio il terremoto a intervenire”. Giacomo Nanni – fumettista e illustratore, vincitore al Festival di Angouleme del premio L’Audacia – rallenta e poi si ferma; sceglie meglio le parole, misurandole in piccoli respiri, e riprende. “Forse se avessi cominciato direttamente con il terremoto, questo libro sarebbe stato subito etichettato come un libro d’avanguardia e sperimentale”. Invece? “Invece ho provato a muovermi in modo graduale, passando dal capriolo ai cacciatori, dalla carabina che i cacciatori usano fino alla montagna”. Atto di Dio, edito in Italia da Rizzoli Lizard, è un fumetto affilato, insinuante, dove disegno e parole lavorano insieme, l’uno di fianco alle altre, e dove la storia parla di Amatrice, della montagna che si scuote, della natura matrigna e della dolcezza della vita, e in cui gli errori degli uomini hanno delle conseguenze precise e inevitabili.

  

“Lavorare a questo libro”, dice Nanni, “è stata una cosa naturale; mi ha aiutato molto confrontarmi con Pasquale La Forgia: è stato il mio primo lettore, non lo facevo leggere a nessun altro. Di tanto in tanto, quando la storia procedeva, gli mandavo delle pagine e lo facevo per il piacere di raccontargli qualcosa. Penso che sia stato questo, poi, a impostare il tono del libro”. Un tono sincero, senza tempo, avvolgente, ammorbidito dai colori e dalle atmosfere, e di una solennità quasi ascetica, mai forzata. “Qualcuno dice che Atto di Dio è difficile. Non lo so. A me fa molto ridere, però. Perché mi scrivono persone che di solito non leggono fumetti e mi dicono di essersi emozionate”. E in effetti, in questo racconto che alterna voci d’animali a voci di cose, fino a voci delle radici della terra, l’elemento emozionale è la chiave di volta di tutto. “È un racconto che si tiene”, continua Nanni, “che si fa leggere, che funziona nonostante la sua frammentarietà. Non vuole essere una teoria su come funzionano le cose. È l’esatto opposto di un libro autobiografico. Queste sono vicende che ho vissuto leggendone. Mi ha appassionato la scrittura degli altri. E quindi Atto di Dio è corale anche da questo punto di vista”.

  

C’è stato, spiega l’autore, “un lavoro molto forte di ricerca. Sia delle ambientazioni sia fotografico. Volevo che ogni dettaglio fosse vero, che le cose fossero disegnate in un modo anche sintetico, sì, ma preciso. Non ho inventato nulla. I paesaggi, i percorsi: ogni cosa esiste”. In Atto di Dio la religiosità, più che la religione, è il filo conduttore della narrazione: “Ma c’è anche la superstizione, e c’è un equilibrio costante tra azioni e reazioni, tra quello che di male fa l’uomo e quello che poi succede. È qualcosa che fa parte di noi, della nostra cultura. La mia non è una risposta, ma una domanda. Ed è una domanda a cui, oggi, non sappiamo rispondere. Né con la scienza, né con la logica, né – purtroppo – con la razionalità”.

 

“Il disegno”, dice Nanni, “è la cosa più importante per me. L’idea, all’inizio, era di fare degli inserti di pura scrittura. Ma mi sono reso conto che, se l’avessi fatto, mi sarei sentito nudo”. In che senso? “Non ne ho avuto il coraggio. Mi piace molto lavorare con dei riferimenti reali. Il disegno diventa, per me, un modo per esprimere il mio punto di vista anche su cose che esistono a prescindere da me o da quello che penso. Il disegno ha sempre fatto parte della mia vita, fin da bambino”. E il fumetto? “Farò arrabbiare i puristi, ma secondo me bisognerebbe cominciare a togliere di mezzo questa parola. Perché dà fastidio, e dà fastidio perché rimanda immediatamente a qualcosa di preciso, come il balloon. Ma il fumetto non è solo quello: non è una forma prestabilita. A me piace parlare di racconto a disegni. Perché non ci sono confini, non ci sono limiti, non ci sono costrizioni”. Cos’è che non le piace? “A me il puro intrattenimento non intrattiene per nulla: mi annoia. Ho bisogno di qualcosa in cui possa riconoscermi. E il fumetto lo devi leggere, ti devi impegnare, non puoi subirlo; non puoi essere passivo. Il termine fumetto si lega ancora troppo al concetto di puro intrattenimento. Ed è vero che nasce per rilassarti alla domenica, nell’ultima pagina di giornale. Ma è normale avere voglia di emanciparsi”. E quindi cosa resta, alla fine? “Resta il pubblico: non esisteremmo, altrimenti; se raccontiamo queste storie è perché vogliamo farle leggere alle persone. E poi rimane la consapevolezza che senza esperienza, senza preparazione, non si va da nessuna parte”. E il talento? “Il talento, in realtà, non conta nulla”.

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