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L'informazione come antivirus

Antonio Catricalà*

Perché tra fake news, pubblicità ingannevole e silenzi delle istituzioni è a rischio la libertà di fare scelte consapevoli

Si fa presto a dire “forza Greta”. Essere in disaccordo con una ragazzina tanto determinata, capace di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale sul futuro del nostro pianeta, è praticamente impossibile. Tuttavia centrare l’obiettivo di uno sviluppo sostenibile non è, parafrasando Mao, “un pranzo di gala”. Comporterà cambiamenti profondi nei processi industriali e nei comportamenti dei cittadini, che dovranno essere accompagnati più che imposti. E anche qualora l’imposizione dovesse risultare l’unica via percorribile, sarà necessario spiegare con chiarezza e trasparenza il rapporto costi-benefici alla base di quell’imposizione.

 

Il tema della comunicazione è cruciale ogni qual volta debba essere immesso nel mercato un nuovo prodotto (pensiamo ai recenti dispositivi anti-abbandono da inserire nei seggiolini auto per i bimbi che ha causato un inammissibile cortocircuito informativo e legislativo) o si chiedano ai cittadini modifiche ai loro comportamenti, tanto più se tali novità sono imposte dalla legge. E va inserito in un quadro più ampio che chiama in causa il sistema di libertà e diritti delle persone.

 

Esiste un diritto a essere informati che discende indirettamente, per consolidata giurisprudenza, dall’art. 21 della Costituzione, prima facie dedicato alla libertà di informare e alla libera manifestazione del pensiero. E qui entra in gioco il ruolo della Rete e l’effetto moltiplicatore dei social, grazie al quale una fake news fa danni irreparabili anche se poi viene smascherata e smentita. Ne deriva che il diritto a essere informato deve essere ulteriormente declinato come diritto a ricevere un’informazione corretta e trasparente, dove le fonti delle notizie devono essere rigorosamente riconoscibili e non può esistere commistione tra informazione e pubblicità. Chiarendo tuttavia che l’informazione aziendale non può essere rinchiusa nel recinto della pubblicità tout court: al contrario, a condizione che sia trasparente, fa parte del bagaglio di conoscenze da mettere a disposizione del cittadino per consentirgli di fare scelte, non solo commerciali, consapevoli.

 

Si tratta di un difficile equilibrio soprattutto quando entrano in gioco prodotti pericolosi per la salute. Tra i 17 obiettivi indicati da Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, sottoscritto nel settembre 2015 dai governi dei 193 paesi membri dell’Onu, c’è quello di “garantire una vita sana e promuovere il benessere di tutti a tutte le età”, anche dimezzando “entro il 2020” il numero globale di morti e feriti a seguito di incidenti stradali. Ma il 2020 è già qui e, ammette la Commissione europea, per quel che riguarda il Vecchio continente, “risulta altamente improbabile che l’Ue possa raggiungere l’attuale obiettivo a medio termine di dimezzare il numero delle vittime di incidenti stradali”, definiti “assassini silenziosi”, tra il 2010 e il 2020. Nonostante la strage che si compie sulle strade di tutto il mondo, nessun decisore politico è stato mai sfiorato dall’idea di proibire la circolazione delle auto. Piuttosto si è innescato un dialogo virtuoso con le industrie del settore per migliorare le caratteristiche di sicurezza degli autoveicoli (anche sul fronte delle emissioni delle sostanze nocive per l’ambiente) ben calibrando incentivi e divieti. La Commissione punta al traguardo di zero morti e feriti nel 2050 ma per raggiungerlo è necessaria “la stretta collaborazione, a tutti i livelli, delle autorità pubbliche di tutti i settori attinenti agli obiettivi di sicurezza stradale, fra cui i trasporti e le infrastrutture, l’ambiente, l’istruzione, le forze di polizia, la sanità pubblica, la giustizia e il turismo. Inoltre, tutti i portatori di interessi hanno un ruolo cruciale da svolgere: l’industria (comprese le compagnie di assicurazione), le associazioni di utenti, le ong, le scuole, i ricercatori e molti altri ancora”.

 

Emerge dunque la necessità di un gioco di squadra, che permetta ai consumatori di comprendere i cambiamenti che li aspettano e alle aziende di avere una cornice chiara degli obiettivi della regolamentazione. Emblematico il caso dello zucchero, il cui consumo eccessivo è strettamente legato all’obesità, importante fattore di rischio per molteplici malattie. Chiunque abbia problemi con il diabete o con il peso sa bene di dovere controllare l’assunzione dello zucchero. Il mercato dei dolcificanti da utilizzare come alternative allo zucchero sta, e non certo casualmente, crescendo: a livello mondiale ammontava a 13,26 miliardi di dollari nel 2015 e dovrebbe raggiungere i 16,53 miliardi di dollari entro il 2020. Eppure se il consumatore dovesse scegliere la migliore alternativa allo zucchero attingendo informazioni dal web verrebbe colto dal panico, confuso da studi scientifici che si contraddicono tra loro. Manca, in situazioni delicate quando sul piatto c’è la salute, una cornice di comunicazione che parta dal concetto di riduzione del danno. In sintesi: per l’obeso i dolcificanti costituiscono una soluzione meno dannosa dello zucchero ma devono potere scegliere consapevolmente il prodotto che meglio si adatta alle proprie abitudini alimentari, senza escludere la soluzione più drastica rappresentata dalla rinuncia definitiva al sapore dolce.

 

Il dato oggettivo è che le Autorità competenti, l’Efsa in Europa e l’Fda negli Stati Uniti, hanno approvato l’utilizzo dei prodotti sostitutivi, nonostante all’interno della comunità scientifica vi siano pareri discordanti sugli effetti a lungo termine legati a un loro consumo eccessivo. Il pubblico decisore si è dunque assunto il rischio di scegliere tra un danno certo e un danno incerto offrendo una direzione di marcia al mercato che ha risposto a questa nuova tipologia di domanda.

 

D’altra parte, a fronte di un prodotto potenzialmente dannoso per la salute ma presente sul mercato come lo zucchero, anche i produttori devono fare la loro parte: innovazione tecnologica e innovazione scientifica rappresentano la via maestra per l’individuazione di soluzioni che prevengano l’insorgere di malattie o consentano una buona qualità di vita ai pazienti, o semplicemente un diverso stile di vita a chi è in forma perfetta. Tuttavia l’innovazione rappresenta un investimento che difficilmente le aziende possono fare al buio: serve un dialogo continuo con i policy maker per conoscere la rotta che il pubblico decisore intende seguire. In Francia, ad esempio, proprio sullo zucchero si è sviluppato un clima di collaborazione e dialogo continuo con l’industria alimentare. La combinazione di azione pubblica e privata ha consentito di raggiungere risultati importanti assicurando al contempo una gestione ordinata della transizione e maggiori benefici in termini di tutela della salute pubblica.

 

In Italia però siamo ancora indietro: nonostante un dibattito in corso da decenni, non esiste una legge sulle lobby che faccia perno sulla trasparenza e sul diritto dei cittadini a essere informati su quanto accade dentro le istituzioni. Questo rende il confronto tra la politica e le aziende difficile e opaco. Non è casuale che in una recente indagine svolta dalla ong Riparte il futuro emerga come le prime tre idee che vengono in mente ai cittadini quando sentono la parola lobby siano: poteri forti, corruzione, faccendieri.

 

Così, quando si tratta di affrontare mercati di prodotti potenzialmente pericolosi, il decisore pubblico è tentato di optare per il silenzio. Quasi che limitando al massimo l’informazione su quel determinato prodotto lo si cancelli, come per magia, dai beni comunque consumati dagli italiani. E’ quanto accaduto ad esempio sul fronte del gioco d’azzardo, per il quale, grazie a una norma inserita nel decreto Dignità, è stato introdotto il divieto di pubblicità. Si può certo sostenere che la pubblicità stretta dai precedenti paletti (gioca in modo consapevole, il gioco può dare dipendenza, il gioco è vietato ai minori di 18 anni) fosse contraddittoria giacché promuoveva un prodotto di cui evidenziava al contempo la pericolosità. Ma la strada dei divieti difficilmente conduce alla meta. Se davvero si vuole ridurre il danno derivante dalla ludopatia bisogna informare di più, non di meno. Il rischio è che dal gioco legale il consumatore passi al gioco illegale, non controllabile in alcun modo e reso ancor più pericoloso dalla solitudine nella quale si conduce, via internet, chiusi nella propria stanza. Non parliamo di casi isolati: una ricerca condotta dal Cnr di Pisa nel 2017, evidenzia che in Italia ci sarebbero 400 mila giocatori problematici, vale a dire soggetti che potrebbero perdere il controllo nel loro agire d’azzardo (spendono spesso oltre le disponibilità; evidenziano comportamenti compulsivi; sono colpiti da stress e ansia da gioco). E in dieci anni il numero sarebbe aumentato di quattro volte.

 

Ci si può legittimamente domandare se il diritto a essere informati su prodotti o comportamenti pericolosi sia destinato a trovare un limite o quanto meno un bilanciamento nel diritto alla salute, altro valore costituzionalmente tutelato. Tale quesito trova tuttavia un’immediata risposta nella libertà di cura che del diritto alla salute è un corollario. I casi fin qui esaminati non ci portano fortunatamente ai lati estremi di questo dilemma. Piuttosto ci si avvicina il tema del fumo di sigaretta. Secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), il fumo di tabacco è la più grande minaccia per la salute e il primo fattore di rischio delle malattie croniche non trasmissibili a livello mondiale. Su questo fronte la comunicazione istituzionale in Italia è stata particolarmente attenta. Tuttavia occorre prendere atto che, nonostante gli sforzi effettuati, il numero di fumatori resta ancora molto alto: un italiano su 4 è fumatore attivo (25 per cento). Il ministero della Salute affronta il tema puntando sulla prevenzione e sul sostegno ai fumatori che vogliono smettere di fumare, escludendo, alla luce dei fallimenti storici, la via del proibizionismo. Manca però del tutto, e non solo in Italia, un approccio che risponda all’obiettivo della riduzione del danno, che abbiamo invece visto avere funzionato bene nel settore dello zucchero e delle auto. Certo, si potrà obiettare che un pasticcino non ha lo stesso effetto devastante di una sigaretta e che rinunciare al trasporto automobilistico è impossibile. Tuttavia, se vogliamo muoverci all’interno del diritto a essere informati e del diritto alla salute, la mancanza di un’impostazione che risponda, anche, all’obiettivo della riduzione del danno non convince. Soprattutto alla luce della presenza sul mercato di alternative potenzialmente meno dannose che evitano il processo di combustione, considerato unanimemente uno degli elementi più dannosi del fumo. Le aziende del settore vi stanno investendo e nelle nostre città si è assistito all’apertura di tantissimi negozi di sigarette elettroniche. Nelle tabaccherie iniziano a essere presenti le sigarette che riscaldano ma non bruciano. Sono prodotti frutto di ricerca e innovazione tecnologica sui quali tuttavia non esiste un confronto pubblico. In mancanza di una comunicazione approfondita e trasparente il cittadino è lasciato in balia delle notizie con titolo a effetto, come le morti da sigaretta elettronica. Che a ben vedere, dopo verifiche più accurate, sembrerebbero correlate alla manipolazione dei liquidi utilizzati.

 

Se davvero si vuole raggiungere l’obiettivo, inserito nell’Agenda del 2030, di ridurre di un terzo la mortalità prematura da malattie non trasmissibili attraverso la prevenzione e il trattamento e promuovere benessere e salute mentale, le industrie del tabacco, quando orientano il loro business su prodotti meno dannosi, vanno ascoltate. In modo chiaro e trasparente, rendendo disponibili quelle informazioni anche ai cittadini.

 

La via della comunicazione va percorsa in tutti i settori, per favorire l’innovazione ed evitare cortocircuiti informativi che vanificano i comportamenti virtuosi dei cittadini finalizzati alla salvaguardia dell’ambiente. Quello che sta accadendo in questi giorni sul fronte dello smaltimento della bioplastica è significativo. In mancanza di dialogo tra i vari attori della filiera e indicazioni chiare dei regolatori, gli impianti di compostaggio in alcune zone d’Italia rischiano di essere intasati dai sacchetti o altri oggetti compostabili che hanno tempi di biodegrabilità diversi dagli avanzi di cibo. Così, in vista della sostituzione dei prodotti mono-uso in plastica, si potrebbe trasformare in problema quella che doveva essere una soluzione. Con buona pace della sostenibilità ambientale.

 

*Antonio Catricalà è stato presidente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato e vice ministro dello Sviluppo economico con delega alle Comunicazioni