La poesia per strada
I poeti italiani devono riconnettersi con il pubblico se vogliono entrare nelle classifiche dei bestseller
Il mio incontro con Kate Tempest, londinese di Brockley, zona sud-est, classe 1985, è avvenuto sotto un segno decisamente inatteso, e senz’altro differente rispetto ai canali attraverso cui si può, in genere, scoprire una nuova poetessa. Un paio di anni fa, infatti, un amico pubblicò, in un gruppo dedicato ai rave e alla musica elettronica, una traccia drum’n’bass da me mai sentita prima, che recava il grifagno titolo “Ketamine for breakfast” e sulla quale una voce femminile tosta, accorata, cattiva e allo stesso tempo empatica, rappava stando perfettamente sulla traccia. Finita la canzone, YouTube fece il suo lavoro passando alla successiva della medesima artista, e io lo lasciai fare. Non fu minore la sorpresa nello scoprire “Europe is lost”: se quel pezzo non aveva la furia dei bassi di “Ketamine for breakfast”, vantava un testo disperato e complesso, che si dipanava in un canto dolente che sembrava uscire dalla grata del sottoscala di un edificio degradato di qualche grande metropoli dell’emisfero occidentale.
Aprii una tab per saperne di più su questa cantante, scoprendo che era in realtà una poetessa prestata alla musica, e che non avevo alcun bisogno di finanziare Amazon Uk: un suo libro stava per arrivare nelle librerie italiane, per le ferrantiane edizioni e/o. Oggi, dopo il buon successo di quel volume – “Let them eat chaos / Che mangino caos”: lo si recuperi – e/o riporta Kate Tempest sugli scaffali con “Antichi nuovi di zecca-Brand new ancients”, il poema precedente, uscito originariamente nel 2013, un anno dopo il debutto “Everything speaks in its own way”. Qui Tempest mischia vita di strada con miti e antiche divinità, mettendo a punto gli stilemi che esploderanno in “Let them eat chaos”: “Nei tempi antichi / i miti erano storie che usavamo per spiegare noi stessi. / Ma come facciamo a spiegare come odiamo noi stessi, / le cose in cui ci siamo trasformati, / il modo in cui ci spacchiamo in due, / il modo in cui ci complichiamo troppo?”. C’è già tutta Kate Tempest, qui, in queste piccole storie individuali che si mescolano a un’elegia urbana grandiosa e dolente, in questo tono da bassifondi, dove la letterata si mescola alla “soapbox preacher”. C’è, insomma, tutta la forza espressiva che le ha fatto ottenere un risultato incredibile per un poeta: finire nella classifica dei libri più venduti.
Sorge allora spontanea una domanda: si potrebbe, forse, fare arrivare la poesia in classifica anche da noi? Qualcuno potrebbe rispondere che Guido Catalano c’è riuscito. Riformuliamo: si potrebbe, forse, portare la poesia non umoristica in classifica anche da noi? Non ho mai creduto alla vulgata che vorrebbe i mercati editoriali altrui ontologicamente migliori del nostro, i lettori altrui inerentemente più colti e preparati e i librai altrui più attenti alla qualità – e credo altresì che non ci manchino i poeti bravi. La Tempest non ha fatto né poesia incredibile (per quanto faccia poesia buona quanto quella di molti dei migliori poeti italiani, non è Sylvia Plath né T. S. Eliot), né troppo facile (siamo ben lontani dalle sciocchezzuole pensate per Instagram da una Rupi Kaur o dai suoi abietti emuli nostrani): quello che ha fatto è stato sporcarsi le mani – “Questo poema è stato scritto per essere letto ad alta voce”, si legge del resto sotto al titolo di “Antichi nuovi di zecca” –, imparare a rappare e a stare sulla traccia elettronica, e poi riportare la poesia per strada, ai concerti, nei teatri, e riconnetterla con le forme espressive con cui ha familiarità il pubblico oggi. Non è poco, ma non è neanche impossibile. Se qualcuno è disposto a farlo.
Antifascismo per definizione