Genova per Nietzsche

Giuseppe Marcenaro

“Qui sono superbo e felice, singhiozzo di gioia…”. Le opere e i giorni del filosofo tedesco nella città in cui scrisse “La gaia scienza”

L’istanza piombò negli uffici al vertice dell’amministrazione della città. In quel momento erano tutti attonitamente impegnati in architettonici manageriali pensamenti: l’allestimento di gonfiabili acquorei scivoli capaci di trasformare il centro della città in luna park… Dove stendere red carpet per gratificare il passeggio dei cittadini… Dove agganciare festoni aerei stracolorati…

 

Per onorarne la memoria e glorificare l’ospitale Genova, una cittadina aveva fatto una formale domanda ai supremi reggitori: poter porre una lapide sulla casa dov’egli aveva abitato e scritto. A quella richiesta le verticistiche stanze furono allagate dal panico: si guardavano l’un l’altro in forma di punto interrogativo. Pensavano ovviamente all’astrusità della proposta. “Ma chi era costui? ’Sto Niet…? Chi? Nietz…? Una lapide?”. “Come si chiamerebbe?” “Chi sarebbe?”, insisteva quello che sembrava il più autorevole. Da una porta socchiusa al fondo di un corridoio echeggiò un autorevolissimo barrito: “Che mandino un curriculum circostanziato. Poi si vedrà”. Un curriculum naturalmente di un anonimo signore che si chiamava Friedrich Nietzsche. “Mai sentito”. “Ah!”. “Sarebbe stato a Genova?” “Una lapide dove ha abitato?” “E ricordarlo perché?”. 


Di recente, alla richiesta di porre una lapide sulla casa dove egli aveva abitato, risposero in comune: “Che mandino un curriculum poi si vedrà”


 

Dalle parti delle Vigne, nel centro storico, Angela, la besagnina (verduriera), quella che sempre si vanta di aver avuto “l’onore di essere nata a Genova”, arrivatale l’eco della pantomima svoltasi nel comunale areopago januense, con orgoglioso saliero, sibilò una delle sue definitive e inappellabili sentenze: “Ignoranti!”.

 

Per lungo tempo, dal febbraio 1883, il suo indirizzo a Genova era stato in salita delle Battistine 8 interno 6. La casa in cui sarebbe arrivato a trovarlo Paul Rée. Si lasciava “scovare” anche se pregava i suoi più stretti amici di non dare l’indirizzo a nessuno. Temeva che gli piombasse addosso la sorella e di dover subire qualche scenata a causa della signora Lou Andreas-Salomé. Quando arrivò in salita delle Battistine, si può esserne certi, nessuno gli fece caso. Forse era stato scontrato da qualche impertinente scolaro schizzato fuori dal portone della scuola elementare “Giano Grillo”, prospiciente salita delle Battistine, una rampa ripida e a rompicollo su piazza Portello, allora slargo sonnacchioso, che trasaliva soltanto al passaggio del tram a giardiniera verde bottiglia, con sulla fiancata il grifuto stemma della città. Nessuno in quei giorni poteva sapere o immaginare chi fosse quello svagato signore dai baffi folti e disordinati, che indossava un soprabito stretto, lucido dall’uso, un cappello floscio. Friedrich Nietzsche era arrivato a Genova con la testa in confusione. Zarathustra e l’idea dell’“eterno ritorno” pesavano come un incubo sulla sua anima. 

 


Nel 1881 alla sorella: “Faccio lunghe passeggiate… Credimi, io sono ora alla testa del pensiero e del lavorio etico europeo, e di ben altro ancora”


 

Bisogna tornare indietro di qualche anno, al 1877, quando Nietzsche arrivò per la prima volta Genova. Era il 20 ottobre, verso la mezzanotte alla stazione Principe, quando prese alloggio all’hotel de Londres, al culmine di via Balbi, poco lontano dalla stazione. Chissà se allora immaginava che per molti anni quella città, ritornandovi, sarebbe stata scenario del suo dramma, del suo disequilibrio attraversato dal terrore. La costante percezione della fine. Con una piccola allucinazione letteraria si può pensare a Genova, per Nietzsche, come alla città in cui visse il suo più alto travaglio creativo, quello che va da Aurora a Così parlò Zarathustra.

 

Genova, per Nietzsche, fu determinante. Il rinnovamento del suo pensiero e del suo stile non lo si concepisce se non sulle spiagge e sulle colline del genovesato quale contrappeso mediterraneo alle vette dell’Engadina dove Nietzsche si era già rifugiato. A Genova trovò appunto una casa. Inutile cercarla oggi. Uno spezzone incendiario durante la Seconda guerra mondiale ridusse in cenere la mansarda dove Nietzsche abitò. Dalla sua finestra spaziava con lo sguardo sul giardino della Villetta Dinegro. Nietzsche ne amava i viali ombrosi. A Genova si arrampicò per le strade che portano alla circonvallazione a monte, corso Firenze, corso Solferino e, ancora più in alto, percorse le carreggiate militari che formano la cintura dei forti sulla vallata del Bisagno. Gli piaceva camminare su quelle strade deserte. Dall’alto volava con lo sguardo sul cimitero di Staglieno. La città ai suoi piedi lo portava a immaginare il brulichio delle attività sulle banchine del porto: “Da cosa dipende che abbia sete di uomini che non sembrino piccoli di fronte a questa natura, allo spettacolo di una passeggiata sui monti fortificati di Genova?”. Verso levante, sempre a piedi, attraverso la collina di San Francesco d’Albaro, raggiungeva Sturla, spingendosi talvolta più in là, fino a Nervi dove, al sole, si stendeva sugli scogli. Il breve inverno della Riviera gli permetteva di vivere oziando fino al tramonto. Nietzsche si abbandonava al grande silenzio. Comunicava con le energie del mondo, tallonato da un’interiore impazienza. Come Faust esigeva risposte. “Tutto ora tace! Il mare è pallido e lucente e non può parlare. Il cielo, con le nuvole rosse, gialle, verdi, recita l’eterna scena silenziosa delle sere: non può parlare. I piccoli scogli, i banchi rocciosi che si levano dal mare, come per ritrovare il luogo della più grande solitudine, sono tutti incapaci di parlare. Questo immenso silenzio che d’improvviso s’impadronisce di noi è bello e ci fa fremere e gonfiare il cuore”. Sospettava che dietro allo splendore vi fosse un trucco, un’astuzia per ingannare la propria sensibilità. In lui non c’era purtroppo spazio per l’autoironia, né per la commiserazione dei propri limiti. “O mare! O sera! che cattivi padroni siete mai! Voi volete che l’uomo smetta d’essere uomo! Deve darsi a voi? Deve diventare ciò che siete in questo momento, pallido, lucente, muto, immenso, riposare se stesso?”. Soggiaceva al ligurischer Komplex che, a proposito di Nietzsche, Gottfried Benn tentò di definire: una specie di piccolo “mal d’Africa” coltivato ostinatamente da viaggiatori nordici inebriati di luce. La Stimmung, quella luce dolorosa del tramonto, annidata tra le case di Genova, mélange di angoscia e abbandono, per Nietzsche alludeva a una promessa. 


Con una piccola allucinazione letteraria si può pensare a Genova come alla città in cui visse il suo più alto travaglio creativo


 

Con la memoria piena di grovigli, con la nuvola di lettere che fa partire da salita delle Battistine, recriminando e amando, sul limite di disequilibri affettivi sempre più ambigui e confusi, conduce il “suo dibattito” con Lou von Salomé, Paul Rée e l’impossibile sorella. Vive tra una fetta di torta pasqualina – che una colorita leggenda vorrebbe gli fosse fornita ogni tanto da Carlotta Bianchi vedova Demarchi, la padrona di casa – e il dolore che blandisce come fonte e misura di educazione. Esteriormente le sue giornate scorrono sempre uguali: passeggiate e lunghe soste alla Villetta Dinegro o all’Acquasola, accasciato al sole su una panchina come un gatto ammalato. Aveva trentasette anni e sembrava un vecchio. Sarebbe non soltanto curioso ma furiosamente interessante scoprire quali persone conoscesse Nietzsche a Genova o se addirittura frequentasse qualcuno al di fuori delle piccole e quotidiane regole della vita minuta. Nietzsche viveva in solitudine quasi assoluta, in grande povertà e sono state queste due immagini a dettare per lui la famosa definizione di “piccolo santo”. E’ questo uno dei temi più affascinanti che consentono alla fantasia il gioco dell’immaginazione. Sarebbe stupefacente riuscire a sapere come i genovesi di quel tempo che devono averlo incontrato nelle sue lunghe passeggiate, avranno visto e cercato di intendere chi fosse e cosa facesse nella loro città l’eccentrico professore tedesco che passava loro accanto.

 

Formidabile esercizio quello di riuscire a cogliere un primo rapporto fra la percezione visiva e le soluzioni del pensatore, fra ciò che Nietzsche poteva cogliere nelle sue esplorazioni in città e quanto metaforizzava con le sue meditazioni. La gaia scienza è un libro genovese, pieno dell’incanto di quel paesaggio e di quell’umanità. Nietzsche si era lasciato sprofondare nelle vecchie architetture. Vagabondò nel giardino abbandonato del palazzo Doria a Fassolo, fra i pini e gli ontani. Un grande Nettuno, al centro, con le sembianze di Andrea Doria, teneva levato il tridente. Più sopra, in una grotta, un Giove gigante sembrava un sovrano morto che governasse il popolo delle divinità estinte. Le immagini del passato giacevano a terra, frante. L’edera avvinghiava ferocemente alberi e rovine. Certo, Nietzsche si deve essere domandato che cosa rappresentasse quel luogo, fra divinità tramontate e cadute in rovina. Doveva essergli sembrato un sacrario sepolto in qualche oriente della memoria. E gli fu inevitabile meditare sulle mutazioni dei tempi: chi poteva aver violato la santità storica del luogo al posto del quale costruirvi una stazione ferroviaria? E poco più in là sulle vestigia ampliare le banchine di un porto? Chi aveva osato tanto? 


Aveva 37 anni e sembrava un vecchio. Soggiaceva al “ligurischer Komplex”. Viveva in solitudine quasi assoluta, in grande povertà 


Nietzsche sapeva tuttavia che gli dei devono perire perché la vita possa continuare più vigorosa. Nella Gaia scienza si trova lo svelamento del rovello. In quelle pagine Nietzsche tenta un bilancio del suo soggiorno, ed è un bilancio che va letto, finché possibile, in rapporto con il suo lungo e drammatico diario genovese: “Mi sono guardato per un bel pezzo questa città, le sue villette e i parchi e il circolo vasto delle sue colline e i declivi abitati; devo dire infine che vedo volti di generazioni scomparse; questa contrada è disseminata di simulacri di uomini arditi e sicuri di sé. Essi hanno vissuto e hanno voluto continuare a vivere, questo mi dicono con le loro case edificate e abbellite per i secoli e non per l’ora fuggitiva; si sentivano ben disposti verso la vita, per quanto malvagi potessero spesso essere stati con se stessi. Vedo sempre l’uomo che costruisce, che fa riposare il suo sguardo su tutto quanto gli è stato edificato intorno, lontano e vicino, e così pure sulla città, sul mare e sulle linee delle montagne; vedo che, con questo sguardo, esercita il suo potere e la sua conquista; tutto questo egli vuole inserire nel suo disegno e farne infine sua proprietà, essendo diventato una parte dell’uno e dell’altra. Questa intera contrada trabocca, nel suo crescere, di questo magnifico, insaziabile egoismo che gode del possesso e della preda; e come questi uomini non riconoscevano nessun confine nella lontananza e, nella loro sete di cose nuove, instaurarono un mondo nuovo accanto all’antico, così anche in patria ognuno continuava sempre a ribellarsi contro l’altro ed escogitava un modo per esprimere la sua superiorità e per interporre fra sé e il suo vicino la sua personale infinitudine. Ognuno si riconquistava ancora una volta per sé la sua patria, soggiogandola con i suoi pensieri architettonici e trasformandola, per così dire, nella delizia della sua casa.

 

… Qui, a ogni angolo di strada, trovi un uomo che sta per se stesso, che conosce il mare, l’avventura e l’Oriente, un uomo che è avverso alla legge e al vicino, come a qualcosa di tedioso, e che misura tutto il già costituito e già antico con l’invidia nello sguardo: egli vorrebbe, con una mirabile sottigliezza della fantasia, dare ancora una volta nuove fondamenta a tutto questo, almeno nel pensiero, sopra posarvi la mano e dentro il suo intendimento, fosse anche soltanto per l’attimo di un meriggio assolato, quando la sua anima golosa e malinconica si sente per una volta sazia, e ai suoi occhi è qualcosa di proprio, e non già di estraneo, che finalmente può mostrarsi”.

 

Anche nei Frammenti postumi si trovano notazioni riportabili al mondo genovese, al paesaggio ligure: “Immerso nei tuoi pensieri stai in mezzo agli scogli, su cui si frange l’onda del mare – non lontano scivola via, davanti a te, la spettrale muta bellezza di un gran veliero…”. In una lettera da Genova del 29 novembre 1881 alla sorella, scriveva: “Qui a Genova sono superbo e felice, un vero principe Doria! O Colombo? Faccio lunghe passeggiate, singhiozzo di gioia sulle alture e avverto uno sguardo nel futuro come nessuno ardì ancora prima di me… Credimi, io sono ora alla testa del pensiero e del lavorio etico europeo, e di ben altro ancora…”.

 

E allora? Quale richiesto curriculum potrà illuminare i “reggitori” dell’amministrazione civica genovese su un uomo del genere, colui che esaltò la loro città mutandola in un teorema filosofico? In tanta esaltazione Nietzsche aver avuto anche una botta di preveggenza. Scrisse con doloroso abbandono: “Genova, un sud che ha perso i colori”. Forse pensava a un remoto futuro, a questi anni, al nostro tempo, a chi è affidato il destino di una città, a tipi che l’hanno precipitata, con l’arroganza dell’ignoranza e il culto di desolanti rappresentazioni, in un baratro di dolorosa estenuazione. D’altra parte sono i medesimi tipi che, ignorando chi fosse, di Nietzsche non potevano che chiedere il curriculum.

Di più su questi argomenti: